Ascesa e Caduta; redenzione, perdizione e corruzione: tutto a causa dei nuovi idoli che divorano l’anima, ma che costituiscono anche la “benzina forte” per il motore che anima i sognatori. Questi gli elementi alla base del successo dirompente di Gold (sottotitolato in italiano con La Grande Truffa), inedita creatura nata dalla mente degli sceneggiatori Patrick Massett e John Zinman inserita, fin dal 2009, nella Black List di Hollywood delle migliori sceneggiature non ancora prodotte, riconfermando che spesso proprio in questa lunga lista si annidano delle imprevedibili sorprese.
Ispirandosi liberamente al vero scandalo minerario che, nel 1993, coinvolse la società Bre-X balzata agli onori della cronaca per aver trovato un deposito d’oro nascosto nelle giungle remote dell’Indonesia, Gold si affida alla regia di Stephen Gaghan (già Premio Oscar per la sceneggiatura di Traffic e regista di Syriana) modificando nomi, luoghi e dettagli di un grande scandalo nel mondo della finanza che, per un maggiore appeal commerciale, è stato paragonato a The Wolf of Wall Street strizzando anche un occhio ad American Hustle e al più recente La Grande Scommessa.
Alla fine degli anni ’80 Kenny Wells (il Premio Oscar Matthew McConaughey, qui alle prese con una nuova, incredibile trasformazione fisica), erede della società mineraria lasciatagli da suo padre, è sull’orlo del fallimento economico. Per salvare sé stesso, le proprie finanze e la storia d’amore con la storica fidanzata Kay (Bryce Dallas Howard), insegue il suo sogno: andare in Indonesia e, affidandosi alle abilità del geologo Michael Acosta (Edgar Ramirez), trovare il più grande giacimento d’oro della fine del secolo. Ma non sempre si può ottenere ciò che si vuole senza pagare un prezzo troppo alto, in termini economici e umani.
Qui la vera scommessa è
Gold stesso, un film lontano da qualunque paragone
fatto solo per ragioni commerciali: incalzante e ridondante,
talmente eccessivo da riempire ogni singolo fotogramma come a voler
scongiurare quel concetto di horror vacui che spesso
affligge le opere che troppo confidano nella propria purezza
estetica ed artistica; un piacere retinico pervade lo spettatore
attraversando le barocche interpretazioni dei suoi ottimi
protagonisti, alle prese con trasformazioni più o meno evidenti,
sul piano psicologico come su quello fisico: a fare la parte del
leone in questa elegia delle luci – ma, soprattutto, delle ombre –
del sogno americano e del mito del “self-made man” pronto a
costruirsi da solo il proprio destino, troviamo un Matthew
McConaughey stempiato, imbolsito, appesantito e con
orrende protesi ai denti; sempre più lontano dagli standard
patinati hollywoodiani e sempre più vicino al Nirvana dei grandi
divi, riempie lo schermo con gesti, movimenti e silenzi, delineando
il ritratto di uno dei tanti americani alla ricerca della propria
Terra Promessa a qualunque costo.