Hatching – La forma del male, la recensione del film di Hanna Bergholm

Hatching – La forma del male

Da noi c’è chi si lamenta di genitori come Peppa Pig, ma le problematiche di una paternità o maternità sono decisamente altre. Come ha chiaro la finlandese Hanna Bergholm, al suo primo lungometraggio dopo tanti corti e una dozzina di episodi di serie tv locali. È lei la regista e sceneggiatrice di Hatching – La forma del male, horror presentato al Sundance Film Festival 2022 che accogliamo volentieri nelle nostre sale (dal 6 ottobre, distribuito da Adler Entertainment) e che conferma la bontà della cinematografia nordica, soprattutto quando si tratta di brividi quotidiani.

 

La scelta di conservare il titolo originale al fianco della generica e discutibile spiegazione italiana è sicuramente un merito, e rimanda alla “schiusa” al centro della storia (questa la traduzione letterale, insieme agli altrettanto significativi “covata” o “covare“). Meglio non considerare troppo quella “forma del male“, a meno di non volerlo intendere in senso molto più ampio di quello che l’appartenenza al genere suggerirebbe.

Hatching: il prezzo di un’esistenza perfetta

Un’operazione non facile – quella di cercare di aprire la mente e allargare lo sguardo – anche per le stesse protagoniste della vicenda, principalmente la giovane ginnasta Tinja (Siiri Solalinna) e sua madre (Sophia Heikkilä), ossessionata dall’immagine propria e della propria famiglia, protagonista impotente del popolare blog “Lovely Everyday Life” e obbligata a vivere una esistenza idilliaca esempio di perfezione suburbana.

In questo contesto, la vita della dodicenne è occupata dai duri allenamenti di ginnastica e il disperato tentativo di compiacere la madre… fino a che, un giorno, Tinja trova un uccello ferito nel bosco e decide di portare a casa il suo strano uovo. Sistematolo nel proprio letto, inizia a curarlo e nutrirlo finché non si schiude. Ma la misteriosa creatura che ne emerge inizia a stabilire un rapporto ambiguo e sempre più stretto con la ragazza, migliore amica e vittima di un incubo vivente, che finisce per distorcere la realtà in un modo che ‘mamma perfezione’ si rifiuta di vedere.

Hatching - La forma del male filmLa forza della Natura

Crescere da soli, o senza sentire l’amore di uno o due genitori, sono le condizioni che la regista affronta in maniera simmetrica, ponendo le condizioni per la strana simbiosi che si crea tra due creature in pieno sviluppo. Un rapporto fatto di bisogni complementari e di sostentamento, reciproco. Ma senza una guida a porre dei limiti, il rischio è quello del cannibalismo, simbolicamente parlando.

Un modo originale di raccontare l’adolescenza, le sue debolezze e necessità, e la superficialità della società moderna utilizzando un horror all’apparenza Old School, fatto di effetti artigianali davvero speciali. E di affrontare il desiderio – spesso non consapevole – di fuga, o cambiamento… a ogni costo.

Mentre conosciamo le paure e le frustrazioni delle parti in causa, ne scopriamo i limiti, e i labili principi, e quanto le trasformazioni che vediamo non siano tanto quelle esteriori. A differenza di un Dorian Gray ‘qualsiasi’, in Hatching – La forma del male siamo costretti a confrontarci con l’immagine che abbiamo costruito, e a difenderci da quel che lo specchio di restituisce, come vediamo nel disturbante finale. Che arriva dopo premesse strumentalmente disattese, in modo da creare un effetto di straniamento e di sorpresa, e una costruzione tra iperrealismo e horror psicologico che racconta di madri spietate (come anche sa essere la Natura), ma che offre uno spunto di seria riflessione su cosa comporti il crescere.

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