Dopo il dramma di uno scrittore in I’m Not Harry Jenson, l’excursus nel mondo degli scacchi di The Dark Horse e il Whina dedicato ai diritti dei Maori, James Napier Robertson torna alla regia e sceneggiatura di un lungometraggio con il Joika – A un passo dal sogno presentato all’ultimo Deauville Film Festival. Un film che finalmente arriva nei cinema italiani – dal 2 novembre, distribuito da Eagle Pictures – per raccontare la storia vera di Joy Womack, l’unica statunitense capace di accedere all’esclusivo e impenetrabile Teatro Bolshoi di Mosca, vero Olimpo del balletto classico. A interpretarla, sullo schermo, la Talia Ryder di Mai raramente a volte sempre e The Sweet East, che vediamo scontrarsi duramente con una arcigna Diane Kruger, vera spina dorsale del film.
La trama di Joika – A un passo dal sogno
Ammessa nell’Accademia di Balletto del Bolshoi, la quindicenne Joy Womack, promettente e talentosa ballerina di danza classica, si trasferisce dal Texas a Mosca con l’ambizioso obiettivo di essere la prima étoile statunitense della prestigiosa Compagnia del Bolshoi. Gli allenamenti della leggendaria insegnante Tatiyana Volkova sono durissimi e le rivelano un ambiente dove la competizione è estrema e feroce e la stessa Volkova esige un impegno immenso dai suoi studenti. Pronti davvero a tutto per superare le concorrenza degli altri, e in particolare di una straniera, e statunitense. Consapevole di ciò, Joy compie sacrifici sempre più estremi senza arrendersi: perdendo peso, dedicandosi a routine di allenamento ossessive e mettendo l’amore al servizio della strategia. Dopo essere stata ripudiata dalla propria famiglia, Joy riesce a diplomarsi all’Accademia del Bolshoi, Ma per raggiungere il suo sogno e diventare prima ballerina, dovrà sacrificare molto di più di quanto possa immaginare.
La recensione di Joika – A un passo dal sogno
Una storia di passione, frustrazione e superamento dei propri limiti, ma soprattutto un dramma sulla definizione degli stessi e sulla messa in discussione dei principi, in questo caso della giovane protagonista, la quindicenne Joy, una ragazza pronta a tutto per vivere un sogno, che – come spesso accade – si rivela essere più simile a un incubo. Un dramma dalle molte ombre e dalle poche luci ispirato alla storia vera alla base anche del documentario Joy Womack: The White Swan di Dina Burlis e Sergey Gavrilov.
Girato principalmente a Varsavia, prima che scoppiasse la guerra tra Russia e Ucraina, e presentato al Deauville Film Festival di settembre, Joika conta molto sulla premessa offerta – e messa in evidenza – allo spettatore e sul carattere ‘storico’ dei fatti reali messi in scena. Un invito implicito alla partecipazione, a empatizzare con la giovane protagonista, sola in un mondo ostile, e costretta a crescere. A ogni costo. Anche adeguandosi a un contesto di slealtà e politica.
Ma l’eccezionalità della sua vicenda, della sua volontà, della sua sfida alla “casa reale russa” – come viene definito il Bolshoi – non sembra supportata adeguatamente da un impianto narrativo solido, nel quale la ricostruzione risulta spesso confuso, diseguale, affidato al personaggio e alla sua forza di indurre una riflessione su quanto si possa sacrificare per ottenere ciò che si vuole.
Un messaggio che arriva chiaro, e che colpisce nel suo perpetrare una tendenza a portare sotto i riflettori l’ennesima storia di disfunzionalità incentrata su una donna. A suo modo di successo, come spesso capita, eppure dominata dal disagio, dall’ossessione, come se queste fossero elementi capaci di trasmettere forza, ispirare una qualche etica, un esempio. Che qui è sostanzialmente negativo, almeno per il taglio scelto, teso a evidenziare gli aspetti più deteriori di questa dipendenza: il dolore, la sofferenza, la rinuncia, anche a sé e le proprie radici e affetti.
Difficile empatizzare con Joy, ed emozionarsi con e per lei, a parte l’inevitabile coinvolgimento per un racconto tanto unico e le tappe attraversate in quella che forse non potremmo definire nemmeno una “discesa agli inferi” effettivamente compiuta. Nel suo svilirsi, svendersi, almeno nella rappresentazione offerta, la protagonista non tocca mai il fatidico fondo. Forse in nome della possibilità di un lieto fine, dell’illusione di una speranza, che paradossalmente fiacca ulteriormente un film che promette di portarci dalle stelle alle stalle, ma che non sembra mai arrivare né alle une né alle altre.
E che, come accennato, ha in Diane Kruger il suo punto di forza, il personaggio più interessante e più ricco, al quale il film ha il pregio di dare il giusto spazio, vero fulcro di una azione dominata da Talia Ryder, che ha il merito di tenere costante la tensione del ruolo più che offrire particolari picchi in un contesto nel quale molte delle figure – e alcuni twist – restano nell’alveo della macchietta, della retoriche, del cliché.