Kill me if you can, la recensione del film di Alex Infascelli

Kill me if you can

Kill me if you can è il nuovo documentario diretto da Alex Infascelli che sarà in sala dal 27 febbraio. La sua carriera inizia già imbevuta di cinema: nipote del produttore e regista Carlo i cui figli hanno praticamente tutti seguito le sue orme, tra i quali quindi anche il papà di Alex, Carlo, muove i primi passi iniziando nel mondo della musica, sia suonandola, facendo parte di diverse band, che partecipando alla produzione di un gran numero di videoclip agli inizi degli anni ’90.

 

Dopo aver dato il via alla carriera da regista nel cinema di finzione, e aver vinto un David di Donatello e un Nastro d’Argento nel 2000 per Almost Blue, esce nel 2015 con S is for Stanley grazie a cui vince un altro David nel 2016 partendo ufficialmente all’esplorazione del documentario. L’anno successivo dirige la trasposizione di una piéce teatrale intitolata Piccoli crimini coniugali, con Sergio Castellitto e Margherita Buy, con la quale aveva già lavorato nel 2004 ne Il siero della vanità, per poi tornare al documentario con il celebre e patriottico – per così dire – Mi chiamo Francesco Totti, presentato tre anni fa alla Festa del Cinema di Roma, che gli vale ancora un David e un Nastro d’Argento.

Alex Infascelli si identifica con i personaggi di cui racconta. Sicuramente questo è un aspetto che riguarda chiunque si muova all’interno di un’espressione artistica in generale: specchiarsi nella propria opera è probabilmente inevitabile per un autore, oltre che fondamentale per farne anche un narratore. La peculiarità del regista è quella di essere attratto da storie che abbiano strati sotterranei che non balzano subito all’occhio.

Kill me if you can, il significato del titolo

Kill me if you can era la frase che Raffaele Minichiello si era inciso sull’elmetto quando a diciassette anni e mezzo si era arruolato nei Marines e combatteva in Vietnam. Il giovane italo americano è passato alla storia dell’epoca – nonché è entrato nel Guinness dei primati – per aver compiuto il più lungo dirottamento di un volo di linea. Il 31 ottobre del 1969, alla vigilia del suo ventesimo compleanno, sale armato su un aereo della compagnia TWA che avrebbe dovuto essere diretto a san Francisco e che lì non arriverà mai, ma che atterrerà a Roma dopo più di diciannove ore e tre scali per far rifornimento. L’uomo oggi ha settantatré e tre figli, è sorridente e calmo nel raccontarsi. La ragione della folle idea era stata un’ingiustizia subita da parte di un suo superiore riguardo a una somma di denaro che avrebbe dovuto ritirare e che aveva messo da parte durante la missione in Vietnam, ma che gli era stata data decurtata di 200 dollari.

Kill Me if you canIl ritratto che compone Infascelli dell’uomo è veramente interessante, soprattutto nel modo in cui scorre da un aspetto all’altro della sua vita e nel ritmo che dà al quadro che man mano si arricchisce di colori e sfumature fino a completarsi del tutto. Raffaele Minichiello appare quasi compiaciuto, ancora stralunato dall’inaspettato successo che un atto – dopotutto – criminale gli ha portato. Il regista segue il narcisismo del protagonista e, chissà, forse per alcuni aspetti lo soddisfa, riflettendosi in esso. È, in fondo, il destino delle personalità istrioniche quello di non avere sempre la percezione dell’effetto che le loro azioni hanno su chi gli sta attorno, o gli vive accanto. Infatti è quasi doloroso, in alcuni tratti, cogliere l’ingombro che Raffaele Minichiello, nel suo ruolo di padre, dev’essere stato soprattutto nella vita del figlio maggiore. Verrebbe quasi da domandarsi se non possa essere stato un sentimento condiviso col regista.

Ad ogni modo, la grande bravura di Alex Infascelli in Kill me if you can è distesa ed espressa alla perfezione. L’occhio narrante nel lasciare parlare lo stesso oggetto di cui vuole dire la storia, riesce a dargli un taglio che va oltre la consapevolezza stessa del protagonista. Proprio come quello che succede quando uno mostra di sé molto più di quanto vorrebbe, e l’interlocutore furbescamente lo usa per piacere personale.

- Pubblicità -
RASSEGNA PANORAMICA
Samanta De Santis
Articolo precedenteThe Strays: tutto quello che c’è da sapere sul film Netflix
Articolo successivoNastri d’Argento Documentari 2023: i vincitori
kill-me-if-you-can-la-recensione-del-film-di-alex-infascellila grande bravura di Alex Infascelli in Kill me if you can è distesa ed espressa alla perfezione. L’occhio narrante nel lasciare parlare lo stesso oggetto di cui vuole dire la storia, riesce a dargli un taglio che va oltre la consapevolezza stessa del protagonista. Proprio come quello che succede quando uno mostra di sé molto più di quanto vorrebbe, e l’interlocutore furbescamente lo usa per piacere personale.