La casa delle bambole – Ghostland, recensione del film di Pascal Laugier

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Il maestro dell’horror francese Pascal Laugier torna dietro la macchina da presa con un nuovo film a tinte dark, La casa delle bambole – Ghostland. Lanciatissimo in patria con Saint Ange (2004), Laugier raggiunse il successo in tutto il mondo con Martyrs (2008), film molto apprezzato dagli amanti del genere soprattutto per i toni gore estremi e i concetti legati alla filosofia del sadismo batailliana.

 

La Casa delle Bambole – Ghostland, quarto lungometraggio del regista francese, è stato presentato al Festival International du Film Fantastique de Gérardmer, dove si è aggiudicato tre premi tra cui Gran Prize, Audience Award e SyFy Award, oltre a far parte della selezione della 36° edizione Torino Film Festival.

Una madre single (Mayléne Farmer) si trasferisce con le sue due figlie adolescenti, Beth (Emilia Jones) e Vera (Taylor Hickson), nella casa di campagna ereditata dalla defunta zia. Ma una coppia di efferati assassini a piede libero le sorprenderà nel cuore della notte, cambiando per sempre le loro vite.

I film di Lagier partono come di consueto da un’idea di base intenta ad omaggiare i grandi maestri del passato del cinema horror. Se in Saint Ange si guardava a Fulci e in Martyrs alla saga di Hellraiser, stavolta il regista francese fa appello a Tobe Hooper e a Non Aprite Quella Porta.

Tuttavia La Casa delle Bambole – Ghostland prende presto una direzione tutta sua, sviluppando il tema che sembra stare più a cuore al regista francese: la tortura. Ma se in Martyrs questo si traduceva, come si è detto, in un’indagine cruda eppure giustificata da un’intento filosofeggiante, in questo caso siamo di fronte ad un gore crudo che si attorciglia sulla storia stessa e sui piani temporali, dove ad un certo punto passato e presente si accavallano, confondendo non solo la protagonista ma anche lo spettatore.

La sceneggiatura, firmata dallo stesso regista, fa leva con forza su un buon twist, intorno ai 30 minuti dall’inizio del film, che sovverte la narrazione e soprattutto pone i villain della storia come torturatori senza nessun background, quindi rappresentati della paura e del gusto per la tortura senza nessuna motivazione razionale o subconscia: la violenza per il piacere della violenza.

Tuttavia il regista francese non si prende la briga di empatizzare con le protagoniste femminili, e le protagoniste diventano quindi semplici “bambole”, inerti pupazzi che popolano tutto il film, tanto che in questo modo compaiono anche in locandina. Le protagoniste non sono affatto eredi del cinema di genere e delle sue eroine, come la Sally Hardesty di Non Aprite Quella Porta (1974) o la Jennifer Hills di Non Violentate Jennifer (1978), ma diventano oggetto dello sguardo, vittime passive di una violenza senza controllo.

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