In uscita il 7 aprile su Prime Video e Tim Vision, La figlia del bosco è l’esordio nel lungometraggio di Mattia Riccio, giovane regista romano che firma una favola nera dal cuore ambientalista, sospesa tra horror psicologico, inquietudini fiabesche e suggestioni fantasy. Il film si inserisce con consapevolezza nel filone dell’eco-vengeance, raccontando il dramma di un uomo che entra nella foresta da predatore e ne diventa preda.
Morte ai dissacratori
La trama ruota attorno a Bruno, cacciatore solitario che si avventura in un bosco sconosciuto senza le dovute precauzioni: niente cartina, niente cellulare, nessun sentiero tracciato. A sera inoltrata, smarrito e spaesato, viene attratto da una voce femminile eterea e incantatrice, simile al canto delle sirene. La segue, come in trance, fino a una casa immersa nel verde, misteriosamente apparecchiata ma disabitata. Da quel momento, ha inizio un incubo fatto di ripetizioni ossessive, incontri stranianti e una natura che sembra rispondere a una propria giustizia.
Un’atmosfera potente e suggestiva
Nel suo momento migliore, La figlia del bosco eccelle nella costruzione dell’atmosfera. Riccio mette in scena un bosco che non ha più nulla di fiabesco: è un labirinto vivo, respira, cambia, inghiotte. La sensazione è simile a quella di certi videogiochi survival horror, in cui si perde il senso dell’orientamento e si continua a girare a vuoto. Ricorda The Blair Witch Project e lo stesso Blair Witch sviluppato da Bloober Team ma anche i recenti The Ritual (2017) e Gaia (2021), per come trasforma l’ambiente naturale in un luogo che osserva, giudica e agisce. Bruno stesso lo dice, sconvolto: “Questo dannato bosco non ti dà punti di riferimento. È come se avessi girato in tondo per ore. L’unico posto che ritorna sempre è questa casa”.
L’incontro con Celeste, capo scout dispersa anche lei da giorni, aggiunge un tocco surreale e quasi ironico: “Disperso nei boschi, con vitto e alloggio gratuito. Inizio a pensare che qualcuno o qualcosa si stia prendendo gioco di noi”. Ma l’ironia dura poco, perché la foresta continua a stringere il cerchio. E il film, da quel momento in poi, si immerge in un crescendo sempre più cupo.
Una denuncia ambientale che affonda nel mito
Sotto il racconto dell’uomo smarrito nella natura si nasconde un sottotesto più ampio: La figlia del bosco parla del prezzo che paghiamo per la nostra insolenza nei confronti dell’ambiente. L’idea – lasciata intendere più che spiegata – è che esista una creatura, un’entità antica nata dalle radici degli alberi, che osserva e giudica in silenzio. La sua voce è il richiamo che intrappola chi ha profanato il bosco, trasformandolo in un oggetto vacuo, privo di identità. “Il tempo della caccia è terminato… il predatore diventa preda”, sembra sussurrare lo sguardo invisibile che aleggia tra le fronde.
La leggenda, che aleggia sul film senza mai essere completamente svelata, ricorda certe mitologie nordiche o le atmosfere del cinema di Ari Aster e Robert Eggers, dove la natura non è solo sfondo ma divinità crudele, silenziosa e inflessibile. C’è qualcosa, in questa “figlia del bosco”, che riporta alla mente anche Antichrist di Lars von Trier, per il modo in cui la colpa personale si intreccia alla punizione cosmica.
Tra intuizioni efficaci e qualche debolezza
Se l’impianto visivo e l’atmosfera sospesa funzionano – grazie anche a una fotografia che alterna tonalità fredde e sprazzi fiabeschi, e a un suono curato, disturbante e stratificato – il film mostra però qualche debolezza nei dettagli. Alcune trovate, come le bambole inquietanti che ricordano i protagonisti, risultano più posticce che disturbanti. Gli effetti speciali sono limitati e, in certi momenti, poco credibili, mentre la recitazione appare spesso troppo impostata, più teatrale che naturale. Un aspetto che, nel complesso, toglie un po’ di immediatezza all’esperienza emotiva. Nonostante queste fragilità, però, la forza de La figlia del bosco risiede nella sua capacità evocativa: il bosco, con i suoi suoni, i suoi colori e il suo silenzio, è il vero protagonista. E il film, pur con qualche ingenuità, dimostra di avere un’identità precisa e una voce personale.
Una promessa da seguire
Mattia Riccio, al suo primo lungometraggio, dimostra coraggio, idee e una visione chiara. La figlia del bosco è un film che, rispetto a tante altre produzioni italiane, osa senza rinunciare a lanciare un messaggio: quello di una natura stanca di essere sfruttata, che chiede silenzio, rispetto, ascolto. Un debutto interessante, che merita attenzione e che potrebbe rappresentare l’inizio di un percorso importante per un giovane autore da tenere d’occhio. Se il cinema dell’orrore può ancora essere una forma di riflessione, La figlia del bosco è la prova che, anche con mezzi ridotti, si può parlare al cuore – e alla coscienza – dello spettatore.
La figlia del bosco
Sommario
La figlia del bosco è un esordio suggestivo e ambizioso, capace di costruire un’atmosfera inquietante e immersiva, ma meno efficace nei dettagli narrativi e visivi. Un horror psicologico che affascina più per le intenzioni che per la piena riuscita, ma che conferma il talento promettente del suo giovane autore.