La vendetta di un uomo tranquillo recensione del film di Raúl Arévalo

La vendetta di un uomo tranquillo

Arriva in sala in 30 marzo La vendetta di un uomo tranquillo, presentato al 73esimo Festival di Venezia e vincitore di 4 Premi Goya (Miglior film, Miglior regista esordiente, Miglior sceneggiatura originale e Miglior attore non protagonista).

 

Madrid, agosto 2007. Curro (Luis Callejo), è l’unico membro di una banda di delinquenti ad essere arrestato in seguito ad una rapina ai danni di una gioielleria. Tempo dopo viene scarcerato e trova ad attenderlo la sua compagna Ana (Ruth Díaz) che cerca di reintegrarlo nella piccola comunità in cui vivono, ma il solitario e riservato Josè (Antonio de la Torre) sembra in qualche modo minacciare le speranze di Curro di iniziare una nuova vita con Ana.

Il film è l’opera prima dello stimato attore spagnolo Raúl Arévalo, noto in Italia per i suoi ruoli in Gli amanti passeggeri e Ballata dell’odio e dell’amore, si costruisce attorno ad una tematica cardine del cinema iberico, quale quella della vendetta, che il regista mostra di riuscire a riproporre con grande abilità e maestria; ne è un esempio il piano sequenza iniziale che in una manciata di minuti condensa i principali punti di forza della pellicola: l’imprevedibilità, la violenza e la tensione.

La vendetta di un uomo tranquillo è un thriller atipico ma allo stesso tempo una sorta di western contemporaneo che intreccia scenari desertici, desideri di vendetta, uomini taciturni mossi da un odio represso e atti di violenza ponderati che esplodono e disattendono le nostre aspettative. Sia la sceneggiatura rigorosa, con una divisione in capitoli che ci rimanda al Kill Bill di Tarantino, che il buon cast, permettono ad Arévalo, di confezionare una vicenda nera e cruda ma al contempo realistica, portando lo spettatore a scontrarsi con una mondo costellato da tanti personaggi tormentati e incompleti che si ritrovano a scendere a patti con la delusione, non riuscendo a risollevarsi dalla loro condizione miserabile; è il caso di Curro ma anche quello di Ana, che in José vedeva uno spiraglio di salvezza per la sua esistenza inappagante o di Triana, interpretato da Manolo Solo, emblema di quel microcosmo umano ai margini della società spagnola.

Nonostante qualche piccola ingenuità ci troviamo davanti ad un ottimo esordio per Arévalo, il quale si mostra una cineasta capace di abbracciare il genere pur a tratti discostandosene nel tentativo di riproporlo attraverso un approccio totalmente personale ma al contempo funzionale alla vicenda trasposta su schermo.

Nella speranza che Arévalo possa continuare a far parlare di sé in futuro, d’ora in avanti soprattutto come regista e non solo come interprete.

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