Poker Face: la recensione del film di e con Russell Crowe

Russell Crowe torna dietro alla macchina da presa per dirigere la sua opera seconda, presentata nel corso della Festa del Cinema di Roma.

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Poker Face: una canzone, un meme, uno stile di vita, ora anche un film diretto e interpretato dal premio Oscar Russell Crowe. L’attore celebre per film come Il gladiatore, A Beautiful Mind e Cinderella Man torna infatti dietro la macchina da presa a otto anni di distanza da The Water Diviner per dirigere una storia da lui anche scritta, che mescola dramma esistenziale a thriller psicologico, sfociando, tra le altre cose, anche nel cosiddetto home invasion. Dinanzi a tutto ciò, la celebre “poker face“, ovvero la faccia priva di qualsiasi espressione interpretabile, rischia di essere quella che assumono gli spettatori al termine della visione.

 

Il film, presentato nell’ambito di Alice nella Città, sezione parallela e autonoma della Festa del Cinema, narra di Jake Foley, un giocatore d’azzardo miliardario, il quale offre ai suoi migliori amici d’infanzia la possibilità di vincere più denaro di quanto abbiano mai sognato. In cambio, però, dovranno rinunciare a ciò che hanno protetto per tutta la vita: i loro segreti. Nel corso della serata in cui tutti loro si giocano quanto hanno di più caro, però, una serie di imprevisti vanno in scena e i piani di Foley devono prontamente essere riarrangiati, per il bene di tutti.

Un film dalle tante direzioni

La cosa che colpisce più di tutto di Poker Face è quanto possa rivelarsi un film disorientante. Non è certo se l’intenzione di Crowe fosse proprio quella di trasmettere questa sensazione, che è sostanzialmente quella che prova anche il suo personaggio, ma i tanti elementi narrativi, stilistici e tematici introdotti nel corso del lungometraggio finiscono proprio per far sentire lo spettatore piuttosto confuso su quanto si sta vedendo. Il problema non è tanto la quantità e la varietà di questi elementi, quanto il fatto che essi non riescano mai, se non raramente, ad apparire coesi verso un unico fine.

Il film, come poi rivelato, è stato ostacolato da una serie di problemi produttivi, tra cui il primo lockdown che ha portato all’abbandono del regista inizialmente chiamato a ricoprire tale ruolo. Crowe, dunque, si è trovato a gestire un film partendo innanzitutto dalla riscrittura della sceneggiatura, avvenuta come da lui raccontato in pochissimi giorni. In particolare, l’attore si è concentrato sul trasformare il film da un racconto d’azione ad uno incentrato sull’eredità che lasciamo a quanti a noi vicini. Cambiamenti e incidenti di percorso che certamente hanno influito sul risultato finale di Poker Face, da Crowe descritto come la sfida più assurda mai intrapresa.

Il poker, una metafora mancata

Guardando Poker Face viene dunque naturale chiedersi come sarebbe potuto essere se Crowe avesse avuto più tempo a disposizione per prendersene cura. Gli elementi dedicati alla ricerca di un senso della vita da parte del protagonista hanno un loro particolare fascino, ma finiscono con l’evocare più di quanto poi riescano a concretizzare. Questo continuo cambiare direzione, lasciando in sospeso quanto fino a quel momento mostrato finisce naturalmente con il trasmettere una certa frustrazione e la cosa non migliora nel momento in cui si passa alle sequenze più propriamente d’azione.

Si tratta a questo punto di un cambio di registro troppo drastico, troppo forzato, che si scontra con quanto proposto fino a quel momento in un modo che non permette di dar vita a nulla di buono. Il che è un peccato, perché si affossa così un film già instabile, che nonostante qualche trovata interessante (ad esempio il perverso gioco che si instaura tra Foley e i suoi amici) finisce con il non trovare una propria anima. A poco serve il fatto che Crowe vanti come sempre una presenza scenica invidiabile e che il suo personaggio possegga elementi psicologici interessanti.

In un’ultima analisi, non si può non menzionare il fatto che il poker, forse l’unico elemento ricorrente dall’inizio alla fine, non venga sfruttato come avrebbe meritato. Poker Face poteva infatti fare di questo gioco di carte una metafora della vita, accostamento certamente non nuovo ma sempre affascinante. In realtà, il poker in sé ha una presenza estremamente ridotta all’interno del film, cosa che non permette di conferirgli il valore che avrebbe meritato. Specialmente visto l’interesse di Crowe di parlare di come si giocano le carte della propria vita. Mancando anche in questo, Poker Face manca definitivamente nel trovare una propria voce.

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Gianmaria Cataldo
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Gianmaria Cataldo
Laureato in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è un giornalista pubblicista iscritto all'albo dal 2018. Da quello stesso anno è critico cinematografico per Cinefilos.it, frequentando i principali festival cinematografici nazionali e internazionali. Parallelamente al lavoro per il giornale, scrive saggi critici e approfondimenti sul cinema.
poker-face-recensione-russell-croweCaratterizzato da problemi produttivi, Poker Face ha al suo interno elementi narrativi, stilistici e tematici molto differenti tra loro, che mal si intrecciano e finiscono con il far sentire disorientato lo spettatore. Anche gli elementi di maggior interesse, dalle riflessioni sulla morte all'interpretazione di Crowe finiscono con il passare in secondo piano in mezzo al caos di un film che non riesce a compiersi.