Basi è un uomo vecchio e solitario. Lavora come controllore ferroviario ed ogni giorno, incurante delle condizioni metereologiche, compie più di venti chilometri di strada. Diciotto anni prima il figlio Seyfi, durante una protesta studentesca  contro il governo turco venne arrestato e fatto sparire. Per tutti questi anni Basi ha continuato disperatamente a cercarlo, inviando numerose lettere ai funzionari governativi e finendo più volte in arresto e sotto tortura.

 

Ma l’anziano padre non si arrende, mosso da un flebile barlume di speranza. Vincitore del premio Luigi de Laurentiis per la Migliore Opera prima alla 69° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Muffa (Küf), opera prima dell’esordiente Ali Ayadin è in primo luogo il racconto della solitudine di un uomo, un padre, la cui unica ragione di vita è data dal mantenere viva ostinatamente la memoria del proprio figlio. Ispirandosi alle figure delle Madri del sabato, le donne che durante la dittatura turca del 1996 scesero in piazza per piangere i figli scomparsi dell’università di Galatasaray, il film si concentra su coloro che rimangono, che sopravvivono alle oppressioni e che attendono il ritorno di coloro che se ne sono andati, delle vittime.

La muffa del titolo, simbolo di attesa e allo stesso tempo di corrosione, si attacca incessante sui cuori e sulla mente dei personaggi, ricoprendo tutto di una patina di rassegnazione e di soffocante evidenza. La stessa muffa poi sembra depositarsi sul tempo filmico, dilatandolo insostenibilmente e concentrando l’attenzione sui silenzi, gli sguardi e il vuoto stesso, sulla figura palpabile della mancanza e dell’assenza. La figura del padre, simbolo per eccellenza di forza e determinazione, sostituisce quello della madre in modo da creare un distacco emotivo, portando lo spettatore a concentrasi più sugli eventi che non sui sentimenti.

muffaAyadin tesse una trama profonda e struggente, dove i personaggi si muovono in un limbo fatto di lunghi piani sequenza e di inquadrature vuote e mute, che colgono in sé il senso di desolazione. Abolendo qualunque movimento di macchina, il regista procede unendo inquadrature e durata delle scene, come una sorta di teatro filmato di influenza esistenzialista. Ercan Kesal, già apprezzato in C’era una volta in Anatolia di N.Ceylan, dà vita ad un padre introspettivo e profondamente umano, forte interiormente seppur debole all’apparenza. Allo stesso modo anche Tansu Bicer rappresenta un capo di polizia indecifrabile, dalle mille sfumature caratteriali, diversamente da Muhammet Uzuner, che nel ruolo dell’amico ubriacone Murat impersona un uomo viscido e meschino. Seppur basandosi su una sceneggiatura solidissima, che ha richiesto al regista più di sette anni di gestazione, Muffa presenta tutti i difetti di un’opera prima, come l’estrema saturazione di tematiche e la regia evidentemente ancora acerba, dimostrando come la Turchia si trovi in una fase cinematografica ancora embrionale. Degna di nota è la fotografia di Murat Tunnel, la quale sa rendere bene un clima di ossidazione e di marciume che collima col tema dell’opera.

Ayadin ha sicuramente dimostrato di essere un autore promettente, intelligente e capace di cogliere a fondo il senso dell’esistenza, e sicuramente questa sua opera d’esordio ne è un esempio chiaro esempio.

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