The Boogeyman: recensione del film di Rob Savage

Al cinema dall'1 giugno, il film è un horror a vocazione mainstream di complessa collocazione artistica

the boogeyman recensione

Stanley Kubrick, John Carpenter, Brian De Palma, David Cronenberg, George A. Romero. E ancora Rob Reiner, Bryan Singer, Frank Darabont, Andy Muschietti. Alla lunga lista di cineasti confrontatisi con la trasposizione cinematografica di un’opera letteraria di Stephen King si aggiunge oggi anche il nome di Rob Savage (Host, 2020). Il titolo selezionato è quello di The Boogeyman, racconto del 1973 comparso in uno dei numeri della rivista Cavalier di quell’anno e successivamente pubblicato nella raccolta “Night Shift”. Un progetto dalla gestazione lunga e travagliata: scritto da Scott Beck, Bryan Woods e Mark Heyman, interrotto nel 2019 – nel corso del processo di acquisizione della 20th Century Fox da parte di Disney – inizialmente pensato per la piattaforma streaming Hulu e infine affidato alla distribuzione cinematografica.

 

The Boogeyman: la trama

Libero adattamento, omaggio o sequel spirituale? Il The Boogeyman di Rob Savage è un prodotto di non scontata collocazione artistica. Il regista sceglie di abbandonare l’unità di luogo della controparte letteraria, sostituendo lo studio psichiatrico del racconto originale con l’abitazione del dottor Will Harper (Chris Messina), all’interno della quale il terapista vive assieme alle figlie Sadie (Sophie Thatcher), di sedici anni e Sawyer (la piccola Vivien Lyra Blair). Sconvolte dalla recente perdita della madre, le due ragazze faticano ad elaborare il lutto, e l’inadeguato sostegno del padre – anch’egli emotivamente provato – ostacola ogni possibilità di dialogo.

Lester Billings (David Dastmalchian), protagonista dell’opera su carta, è invece un semplice incursore; autore di una sortita silenziosa e traumatica. Portatore malato di un’entità maligna destinata a sconvolgere l’esistenza della famiglia Harper.

the boogeyman David DastmalchianUn problema di realtà

“Cominciavo a dirmi: forse, se pensi a lungo a una cosa, e ci credi, diventa reale. Forse tutti i mostri di cui avevamo paura da ragazzini, Frankenstein, il Lupo Mannaro, Mammona, forse erano tutti reali. Tanto veri e concreti da uccidere i bambini che si credeva fossero morti in fondo a una cava, o annegati nel lago, o che non erano stati trovati più… Forse…”

“Forse” sussurrava King. “È reale!” esclama invece Rob Savage. E il problema di The Boogeyman è, innanzitutto, un problema di realtà, di concretezza eccessiva.Laddove il racconto del romanziere mirava infatti a suggerire, sottovoce, l’orrore – inoltrandosi nei disturbati meandri mentali di Lester Billings per fluttuare lungo il confine (sottile) tra verità e degenerata psicosi – il film del cineasta britannico agisce invece agli antipodi concettuali del suo autografo. L’ambiguità che sottendeva l’originale lascia dunque il posto a un progressivo “realizzarsi” del mostro, che lungi dal rimanere confinato nella prigione di parole o vaneggiamenti di un pazzo (o presunto tale), assume al contrario forma corporea, uscendo dell’oscurità – simbolica – che dovrebbe abitare.

the boogeyman sophie tatcherThe Boogeyman: buio e confusione

Tra sprazzi di complicazioni adolescenziali, rapporti padre-figlia/e e sedute di analisi, The Boogeyman vaga confuso, al buio, alla ricerca di una identità propria, appesantito forse da una controparte cartacea a cui sente di dover rendere giustizia e dalla quale, al contempo, prova a distaccarsi.

Il film di Savage, dopo un incipit di indubbia valenza, inizia difatti a perdersi, a girare a vuoto, disorientato. Sembra tentare la via dello psico-horror alla Babadook, ma la mancata elaborazione del lutto, tematica centrale all’interno del fortunato esordio di Jennifer Kent del 2014, finisce per risultare uno strumento più che altro accessorio, senza riuscire mai ad elevarsi a principale focus della narrazione.

The Boogeyman, dopo aver sondato diverse strade, si accontenta così di imboccare il sentiero più semplice e prevedibile, trasformando il conflitto in una ben poco originale caccia al mostro. Una caccia ad un alien visto e rivisto, dal design fin troppo riconducibile a quello delle orripilanti creature di A Quiet Place – alla cui sceneggiatura, insieme a John Krasinsky, sono non a caso accreditati anche Scott Beck e Bryan Woods.

Il risultato finale, purtroppo, è un prodotto che fatica ad uscire dell’anonimato del panorama horror convenzionale. Un’opera che all’atavica nictofobia meravigliosamente tratteggiata da King sostituisce un canovaccio per lo più indeciso e fondato sul cadenzato riproporsi di jumpscare. Un film a chiara vocazione mainstream a cui la performance di una incantevole Sophie Thatcher – una delle sfortunate Yellowjackets della applaudita serie Showtime – non può bastare a lasciare il segno.

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