The Way Back recensione

Arriva al cinema The Way Back, il film diretto da e con protagonisti nel cast Ed Harris, Colin Farrell e Kim Sturgess.

 

In The Way Back siamo nel 1940 nei Gulag siberiani, dove il regime sovietico confina tutti coloro che considera “nemici del popolo”. Il Gulag è un microcosmo dove i prigionieri lottano ogni istante per sopravvivere, sottoposti ad estenuanti lavori forzati, scarsamente nutriti e costretti a confrontarsi con la furia di una natura inclemente che, come gli viene detto al loro arrivo al campo, è la loro vera prigione.

Per sfuggire a tutto questo, e non solo alla mancanza di libertà, il giovane polacco Janusz (Jim Sturgess) riunisce attorno a sé un piccolo gruppo e organizza una fuga. Ne fanno parte un coraggioso e schivo ingegnere americano, Mr. Smith (Ed Harris), il prete lettone Voss (Gustaf Skarsgard), il talentuoso artista polacco Tomasz (Alexandru Potocean), l’ironico iugoslavo Zoran (Dragos Bucur) e il giovanissimo Kazik (Sebastian Urzendowsky). Ma per fuggire c’è bisogno anche del contributo del violento e rozzo russo Valka (Colin Farrell): un uomo di strada, un criminale senza scrupoli che nel campo fa da guardiano e intimorisce i detenuti, ma che può essere molto utile ai fuggiaschi.

Anche lui vuole scappare dal Gulag, oltre che dai pesanti debiti di gioco che ha contratto. Questa la compagnia che si troverà ad affrontare un viaggio lungo 10.000 chilometri attraverso la gelida Siberia, la Mongolia, l’arido e infuocato deserto del Gobi, le aspre vette dell’Himalaya e infine l’India, dove potranno considerarsi salvi. Una giovane ragazza polacca fuggita da un orfanotrofio, Irena (Saoirse Ronan) si unirà a loro. Le prove di resistenza fisica e mentale cui saranno sottoposti saranno durissime, in un’odissea che sembra interminabile. Non tutti ce la faranno.

È così che Peter Weir torna alla regia dopo quasi 10 anni, ovvero dopo il fortunato Master and Commander – Sfida ai confini del mare. Torna con una vera e propria epopea umana dove ancora una volta, come spesso nel suo cinema, l’uomo è costretto in situazioni estreme, senza quella libertà che cerca faticosamente di riconquistare. Sceglie di partire dall’assurdo universo del Gulag, emblema di questa privazione, riportandolo alla nostra attenzione (cosa che pochi hanno fatto nel cinema). Nelle storie raccontate dai prigionieri nel film è percepibile l’eco delle ricerche fatte e delle testimonianze raccolte in Russia dallo stesso regista, oltre che del romanzo di Slavomir Rawicz Tra noi e la libertà, cui Weir si è ispirato.

Altro tipo di costrizione è, invece, quello delle durissime condizioni naturali con cui l’uomo si scontra. Una forza misteriosa quella della natura, che da sempre affascina l’australiano Weir coi suoi spazi immensi e quella bellezza che i romantici chiamavano sublime, affascinante e spaventosa al tempo stesso, perché troppo potente e spesso ingovernabile dall’uomo. Il regista la rende protagonista con i suoi estremi (dal gelo al torrido deserto, dalle tempeste di neve a quelle di sabbia), utilizzando come efficacissime location la Bulgaria e il Marocco e avvalendosi dell’ottima fotografia diretta da Russell Boyd – già premio Oscar per Master and Commander. A conferma di quanto l’aspetto naturalistico sia importante va anche l’impegno produttivo della National Geographic Entertainment.

Con questo universo devono misurarsi i protagonisti, perché quello che il regista ama fare è mettere a dura prova i suoi personaggi. Così seguiamo la loro lotta per la sopravvivenza, la fatica e la difficoltà di procurarsi cibo e acqua, la necessità di camminare incessantemente per giungere a una meta che sembra allontanarsi sempre più anziché avvicinarsi. Li seguiamo e non possiamo non esserne  coinvolti, viaggiamo assieme a loro in spazi e mondi lontani da tutto ciò che conosciamo. Non possiamo non chiederci: che farei al loro posto? Sopravviverei? Questo è senza dubbio l’aspetto più interessante del film, che mantiene sempre viva l’attenzione dello spettatore. Impresa non facile, visto che siamo alle prese con una manciata di personaggi che si muovono per due ore in paesaggi desolati.

Poi ci sono le relazioni che si instaurano tra i vari membri del gruppo: un’umanità che si ricostruisce e si rifonda dopo l’esperienza disumanizzante del Gulag. Storie spesso terribili alle spalle, diverse motivazioni per farcela, caratteri differenti (basti pensare a Valka e Mr. Smith, nelle ottime interpretazioni di Farrell e Harris), ma tutti cooperano per un obiettivo e pian piano quell’umanità “congelata” dall’esperienza della prigionia torna a vivere. Il cast offre senz’altro buone prove, che rendono vividi i caratteri di ciascuno (oltre ad Harris e Farrell, spiccano anche Sturgess che interpreta Janusz e Dragos Bucur nel ruolo di Zoran). Tuttavia manca forse in questa parte un elemento che tocchi davvero nel profondo lo spettatore, mentre c’è qualche accento retorico, mitigato però da elementi di realismo e disincanto, e dalla crudezza delle situazioni in cui i personaggi si trovano. Sapiente e scrupolosa la direzione di Weir, abile nel destreggiarsi tra le due forze in gioco: la natura matrigna dagli immensi spazi e questo piccolo nucleo umano animato da un’incrollabile determinazione. Il regista australiano ci regala ancora un’interessante esperienza cinematografica. La pellicola sarà nelle sale dal 6 luglio.

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