Transformers – Il risveglio: recensione del film di Steven Caple Jr.

Da oggi al cinema il settimo tassello della fortunata saga di robottoni. Prodotto da Michael Bay

Un tramonto mozzafiato, il ritorno a casa del Capitano Lennox, Sam e Mikhaela finalmente insieme dopo la folle avventura vissuta, il possente voice over di Optimus Prime e i Linkin Park a introdurre i titoli di coda. “What I’ve done?” si domandava probabilmente Michael Bay quel giugno di sedici anni fa, dopo aver consegnato al mondo il primo capitolo dei Transformers.

 

Era il 2007, era Shia Labeouf con Megan Fox, Optimus vs Megatron, e il Marvel Cinematic Universe doveva ancora affacciarsi sul panorama cinematografico postmoderno. Oggi, mentre Hollywood assiste all’alba di una quinta fase dell’MCU, i robottoni di Bay – sebbene orfani del proprio creatore – tornano di prepotenza sulla scena. Un risveglio prequel/reboot (?) che, affidato alle mani di Steven Caple Jr. (Creed II), dà seguito al fortunato Bumblebee del 2018.

Transformers – il risveglio: la trama

Ambientato nella New York dei primi anni ’90, Transformers – il risveglio, settimo tassello della saga, introduce il personaggio di Noah Diaz (Anthony Ramos), ex militare esperto in elettronica che vive a Brooklyn insieme alla madre e al fratello minore. Una notte il ragazzo viene in contatto con gli autobot Mirage, Optimus Prime e Bumblebee, e con Elena Wallace (Dominique Fishback), giovane ricercatrice di un museo di storia naturale.
Sono solo le battute iniziali di un lungo viaggio che condurrà Noah ed Elena dall’altra parte del mondo, coinvolti in una guerra tra le fazioni Autobot, Maximal, Terrorcon e Predacon, in un’epica battaglia contro il temibile Unicron per la salvezza del pianeta Terra.

Marchio di fabbrica

È iniziato tutto come un gioco. Un grande gioco targato Hasbro e Takara Tomy, quasi quarant’anni fa. È iniziato tutto quando eravamo bambini; quando, gironzolando per casa, amavamo maneggiare macchinine, camioncini, piccoli aerei ed elicotteri in miniatura, per osservarli trasformarsi sotto i nostri occhi, con sincero stupore e fame di “magia”. Ha avuto inizio nel 1984 e, da allora, il grande gioco dei Transformers si è evoluto. Nel tempo ha cambiato forma e dimensione, trasmigrando dalla fisicità dell’oggetto ludico a quella dei fumetti manga, per poi confluire nell’audiovisivo assumendo veste seriale (Beast Wars, Transformers Car Robots) e cinematografica. È iniziato tutto come un gioco e, in fin dei conti, non ha mai realmente smesso di esserlo.

A un primo sguardo, dopotutto, anche Transformers – il risveglio è il solito giocattolone da marchio di fabbrica. E il primo e principale elemento di consuetudine risiede nel suo plot. Inserito alla perfezione all’interno delle tipiche dinamiche da franchise – MCU in prima linea – anche il lungometraggio di Steven Caple Jr. provvede infatti a un rimodellamento/aggiornamento della “Lore” a cui appartiene; cornice di un quadro già predisposto ad antiche leggende, manufatti perduti e più o meno rocamboleschi incontri tra un giovane umano e un autobot, pronti ad imbarcarsi per mirabolanti avventure. Sam Witwicky e Noah Diaz, Bumblebee e Mirage, AllSpark e Chiave Transcurvatura sono allora elementi che, al di là di etichette archetipiche, risultano in effetti ai limiti dell’interscambiabilità; simboli di una apparente staticità narrativa che è invece funzionale meccanismo di affiliazione. Raggio di luce incaricato di guidare il pubblico vero casa.

Transumanesimo e immagine meccanica

Transformers però, come il mantra della saga ama ripetere, ha sempre celato “più di quel che vedevamo”. L’operazione stessa è in realtà frutto di una visione, dell’illuminazione combinata di due autori come Bay e Spielberg; con il primo capace fin dai primi istanti di cogliere parte delle intuizioni del secondo e convertirle in una personale, robotica guerra dei mondi. Oggi, seppur spogliato della regia dell’esplosivo cineasta statunitense – ora produttore, il franchise non ha perduto il proprio afflato spielbergiano. E se Bumblebee “impersonava”, neanche troppo velatamente, un E.T. del XXI secolo, le contaminazioni avventurose alla Indiana Jones ne il risveglio vengono esplicitamente “denunciate” dal protagonista stesso dell’opera.

A dominare la scena è però, ancora una volta, la poetica/eredità di Bay, che riletta a posteriori, conserva ancora la folgorazione dell’anno 0 dei Transformers. Una poetica volta alla meccanicizzazione dell’immaginario; all’interno di un universo in cui, data la vicendevole permeabilità tra uomini e robot – confluita nel (per ora)  transumanesimo integrale del Noah-cyborg di il risveglio, anche l’immagine cinematografica non può che subire il medesimo processo. Così come l’uomo non crea la macchina, ma si fonde ad essa secondo un’armoniosa e quasi inevitabile complementarità, lo stesso fa l’immagine. In un tutt’uno indivisibile.

Per Bay ogni cosa è macchina ed ogni cosa è umano. E in un mondo che ragiona sempre più artificialmente non resta che domandarsi se Cybertron non sia ormai qualcosa in più di un remoto corpo celeste evocato dalla fantasia di un narratore. A I posteri l’ardua sentenza.

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