Un grigiore soffocante, quasi tossico è la prima impressione che regala Un mondo fragile (La tierra y la sombra), il film di César Acevedo premiato con la Camera D’Or a Cannes 2015. Fragile perché così appare agli occhi dell’anziano Alfonso (Haimer Leal) che torna dopo diciassette lunghi anni nella sua terra per accudire il figlio Gerardo, ora gravemente malato. La denuncia, come si può capire, è di carattere ambientalista. Il film infatti rappresenta un quadro di quella spietata realtà con la quale ogni giorno fanno i conti i contadini della Valle della Cauca in Colombia.
Gli scarti della lavorazione agricola vengono bruciati sistematicamente e tolgono il respiro agli operai sudamericani. E finisce col condannare a morte chi nella perpetua fuliggine ci vive e lavora, come Gerardo (Edison Raigosa). Il ritorno al passato di Alfonso si colora quindi di nero: niente più fattorie verdi e prospere, niente sole, niente sorrisi. 
L’opera d’esordio del giovane César Augusto Alvedo è un’ode commossa e sincera alla ruralità di un mondo che sta tristemente scomparendo, minacciato da una condotta umana che sembra non lasciare alcuno scampo. Ma la rassegnazione non è la strada giusta. Per questo in fondo a ogni singola inquadratura e ogni scena si avverte un crescendo di coraggio e una presa di coscienza che si trasmette magicamente allo spettatore. In mezzo c’è la giostra degli affetti, la malinconia della distanza e del passato, il magone della riscoperta delle origini. Felicità e sofferenza sublimate insieme nel galoppo di un cavallo, in quella che forse è la scena chiave del film. Mai metafora fu più reale. E pensare che tutto è partito da una sceneggiatura presentata per una tesi di laurea.
