Un grigiore soffocante, quasi tossico è la prima impressione che regala Un mondo fragile (La tierra y la sombra), il film di César Acevedo premiato con la Camera D’Or a Cannes 2015. Fragile perché così appare agli occhi dell’anziano Alfonso (Haimer Leal) che torna dopo diciassette lunghi anni nella sua terra per accudire il figlio Gerardo, ora gravemente malato. La denuncia, come si può capire, è di carattere ambientalista. Il film infatti rappresenta un quadro di quella spietata realtà con la quale ogni giorno fanno i conti i contadini della Valle della Cauca in Colombia.
Gli scarti della lavorazione
agricola vengono bruciati sistematicamente e tolgono il respiro
agli operai sudamericani. E finisce col condannare a morte chi
nella perpetua fuliggine ci vive e lavora, come Gerardo
(Edison Raigosa). Il ritorno al passato di Alfonso
si colora quindi di nero: niente più fattorie verdi e prospere,
niente sole, niente sorrisi.
In compenso Alfonso
ritrova, oltre al figlio morente, anche la nuora (sempre più
determinata ad abbandonare quei luoghi ma ostacolata dalle ritrosie
del marito, incapace di abbandonare la madre) e – soprattutto –
l’anziana donna che un tempo era stata sua moglie. Quest’ultima
assurge a simbolo di tutto ciò che il vecchio contadino ha lasciato
e perso quando ha deciso di partire per tagliare i ponti con un
luogo che non sentiva più suo. Ma perfino in un mondo così cupo e
inerte la speranza è l’ultima a morire. La primavera tornerà,
simboleggiata dalla purezza e dalla tenacia della nuova generazione
e incarnata nel piccolo Manuel, figlio di Gerardo. Un autentico
deus ex
machina che scuote l’esistenza del vecchio Alfonso, il cui
cuore si (ri)apre all’ascolto della natura, alla cura delle piante,
al culto della terra. Così, mentre sul letto di una camera sempre
più buia e asfissiante Gerardo lotta per la vita, suo padre Alfonso
andrà alla ricerca di un contatto con sé stesso, dell’uomo di un
tempo, recuperando l’affetto dei luoghi delle sue origini e
soprattutto di quelle persone che, in un mondo o nell’altro, non
hanno mai smesso di essere la sua famiglia.
L’opera d’esordio del giovane César Augusto Alvedo è un’ode commossa e sincera alla ruralità di un mondo che sta tristemente scomparendo, minacciato da una condotta umana che sembra non lasciare alcuno scampo. Ma la rassegnazione non è la strada giusta. Per questo in fondo a ogni singola inquadratura e ogni scena si avverte un crescendo di coraggio e una presa di coscienza che si trasmette magicamente allo spettatore. In mezzo c’è la giostra degli affetti, la malinconia della distanza e del passato, il magone della riscoperta delle origini. Felicità e sofferenza sublimate insieme nel galoppo di un cavallo, in quella che forse è la scena chiave del film. Mai metafora fu più reale. E pensare che tutto è partito da una sceneggiatura presentata per una tesi di laurea.