Universitari – Molto più che amici recensione del film di Federico Moccia

Universitari – Molto più che amiciCon Universitari – Molto più che amici Federico Moccia tenta un cambiamento di audience ricercando le attenzioni di un pubblico più maturo. Ed è così che i sempreverdi protagonisti dei suoi film – adolescenti in balia degli ormoni – vengono rimpiazzati senza troppi rimpianti da universitari insicuri del proprio futuro. Peccato che i ventenni immortalati da quest’ ultimo lavoro siano completamente identici a quelli di Tre metri sopra il cielo e del più recente Amore 14, che, come suggerisce efficacemente il titolo, avevano 14 anni: qualcosa quindi, non torna.

 

Universitari – Molto più che amici posterIl film vorrebbe essere un vitale e fedele inno di una generazione che non sa più dove andare, frustrata dalla precarietà e dalle incertezze; lo stesso regista ha dichiarato con forza di aver perseguito la strada del realismo ritraendo le vite reali degli universitari di oggi. Siamo così introdotti dalla voce narrante del protagonista Carlo (Simone Riccioni) dentro “Villa Gioconda”, una ex clinica in disuso che la padrona ha deciso di affittare a studenti fuori-sede, senza neanche rimetterla troppo a posto. Si formerà così un’invidiabile famiglia allargata (guarda a caso i coinquilini sono tre maschi e tre femmine) che darà a ciascuno la forza di superare le proprie paure e di spiccare il volo.

Se il buon Moccia voleva farsi portavoce dei giovani adulti, ha decisamente sbagliato strada: lo script non presenta infatti nulla di attuale o per lo meno di reale, ma si configura come un grande contenitore di assurdi psicodrammi adolescenziali. Per una sorta di grottesca par condicio, non viene lasciato fuori niente: c’è il trauma dovuto alle liti dei parenti, il dolore per la perdita del padre, i genitori poco presenti, le imposizioni e i rancori, i tradimenti e le pene d’amore, persino l’immancabile sorella con problemi di droga e di debiti. Per rendere giustizia ai tempi di cambiamenti culturali, viene addirittura introdotta la figura dell’iraniano Faraz (Brice Martinet), portatore di una diversa visione del mondo, che non perde occasione di esemplificare attraverso stereotipi senza fine.

Ogni singolo tassello componente il quadro è pervaso da un’incontenibile banalità mista a favolosi cliché, amplificati da una sceneggiatura che parla solo per luoghi comuni. Sono proprio i dialoghi – scritti dallo stesso Moccia insieme a Ilaria Carlino – a costituire la parte più surreale e artefatta della già poco verosimile pellicola. Sguardi complici e compassionevoli, elementari parole di conforto accolte dagli interessati come poetiche perle di saggezza e improbabili citazionismi vengono esibiti con orgoglio come efficace arma contro le avversità della vita. La hit “Stupido” di Alessandra Amoroso diventa così un modello esistenziale nel quale rispecchiarsi e commuoversi. Nessuna colonna sonora fu mai più azzeccata.

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