

Se il buon Moccia voleva farsi portavoce dei giovani adulti, ha decisamente sbagliato strada: lo script non presenta infatti nulla di attuale o per lo meno di reale, ma si configura come un grande contenitore di assurdi psicodrammi adolescenziali. Per una sorta di grottesca par condicio, non viene lasciato fuori niente: c’è il trauma dovuto alle liti dei parenti, il dolore per la perdita del padre, i genitori poco presenti, le imposizioni e i rancori, i tradimenti e le pene d’amore, persino l’immancabile sorella con problemi di droga e di debiti. Per rendere giustizia ai tempi di cambiamenti culturali, viene addirittura introdotta la figura dell’iraniano Faraz (Brice Martinet), portatore di una diversa visione del mondo, che non perde occasione di esemplificare attraverso stereotipi senza fine.
Ogni singolo tassello componente il quadro è pervaso da un’incontenibile banalità mista a favolosi cliché, amplificati da una sceneggiatura che parla solo per luoghi comuni. Sono proprio i dialoghi – scritti dallo stesso Moccia insieme a Ilaria Carlino – a costituire la parte più surreale e artefatta della già poco verosimile pellicola. Sguardi complici e compassionevoli, elementari parole di conforto accolte dagli interessati come poetiche perle di saggezza e improbabili citazionismi vengono esibiti con orgoglio come efficace arma contro le avversità della vita. La hit “Stupido” di Alessandra Amoroso diventa così un modello esistenziale nel quale rispecchiarsi e commuoversi. Nessuna colonna sonora fu mai più azzeccata.
