Venezia 72: Francofonia recensione del film di Aleksandr Sokurov

Francofonia

Francofonia – L’industria cinematografica, almeno in superficie, è un universo abbastanza semplice da comprendere, anche per i ’non addetti ai lavori’. La parte più scintillante, patinata e glamour è ovviamente dominata dalle produzioni hollywoodiane, create con la preoccupazione primaria di infrangere record su record al botteghino; subito dopo troviamo la parte più appassionata, il cinema di genere, che cattura puntualmente milioni di estroversi incalliti, nerd di vario genere, collezionisti e feticisti del sangue, delle pallottole, delle lame affilate. Inseguono poi commedie e drammi dell’Europa occidentale, gli indie americani, tutto l’underground dei cinema monosala, luoghi dall’aura mitologica dalle sedie di legno trasandate e unte.

 

Più nascosti, timidi, introvabili, ci sono poi i grandi Maestri, persone uniche che badano molto a loro stesse – è vero – ma solo per regalare al loro selezionato pubblico adorante un respiro di meraviglia. Ci viene da pensare a Jean Luc Godard, a Terrence Malick, alla Russia e ad Aleksandr Sokurov. Già, Sokurov, che sprezzante di qualsiasi regola commerciale e materiale ha tirato fuori dal cappello del suo inestimabile talento – dopo il gigantesco Faust, Leone d’Oro a Venezia nel 2011 – Francofonia. Un esperimento, un saggio, un sogno sfocato, un documentario, un viaggio nel tempo e nello spazio, ma soprattutto una dichiarazione d’amore.

Amore per quell’arte eterna, monumentale, universale, attraverso la quale l’uomo ha lasciato la sua impronta sull’esistenza passata, presente e futura. Una passeggiata mano nella mano attraverso le sale e le gallerie del Museo del Louvre di Parigi, custode della verità e della bellezza, ma non solo. Anche testimone di eventi nevralgici, di grandi rischi e grandi offese, di valorosi e infimi uomini. Il cuore del mondo visto come una nave in mezzo all’oceano, carica di opere d’arte dal valore incalcolabile eppure in balia di una tempesta selvaggia, di onde feroci, che rischiano di annientare tutto.

Tele, sculture, l’umanità nella sua interezza, perché è senza arte che l’uomo si fa arido, vuoto, inutile. Ecco dunque la critica all’età contemporanea, alla madre Russia, affidata a un urlo soffocato che tenta di rianimare i grandi autori del passato, sussurrando loro quanto bisogno urgente vi sarebbe oggi del loro operato. Un’utopia in piena regola, narrata con una voce quasi spezzata, innamorata e nostalgica, desiderosa di conservare, assorbire la bellezza e l’assoluto – del resto sono due cose che spesso coincidono – e condividere tutto con gli altri, nel buio della sala. Il risultato è un’opera slegata, visionaria, incantevole, comlicata, a tratti persino interattiva, anarchica, da rivedere più volte, che prova a ricordarci chi siamo, chi siamo stati, chi saremo, con il piglio di chi sa di poter tutto, sfidare la corrente, capovolgere il mondo, far scorrere i titoli di coda all’inizio. E creare l’incantesimo.

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