Venezia 72: L’Attesa, recensione del film di Piero Messina

Una camera buia, silenziosa, stretta nella rigorosa simmetria dell’inquadratura, e una madre, devastata, sofferente come se qualcuno le avesse appena strappato il ventre, con forza. Tutto all’ombra di un Cristo in croce, nudo, inerme; un uomo, un figlio sacrificatosi per i peccati del mondo, che attende la Pasqua per ritrovare i vivi e consolarli.

 

Le immagini che segnano il debutto di Piero Messina nel cinema che conta sono istanti che non si dimenticano facilmente, che si insinuano nell’anima per abitarla a tempo indeterminato. Non perché aprono la strada a un soggetto incredibilmente originale, universale, anzi, si parla di elaborazione del lutto, di mancanze, di silenzi, temi abbastanza cari al grande schermo. Per capire bisogna affiancare i personaggi, entrare a passi lievi nella loro umanità, la loro essenza, e ritrovare nei loro occhi momenti di vita che noi stessi abbiamo vissuto o che potremmo vivere. Bisogna condividere con loro il dolore, l’assenza, l’attesa. Già, cos’è questa attesa che regala il titolo al film? Si attendono i momenti giusti, le telefonate, i ritorni, le partenze e gli arrivi, in un casale sperduto nelle campagne del ragusano, in Sicilia. Un non-luogo che per pochi giorni unisce due universi all’apparenza paralleli, quello di una madre che ha appena perso un figlio e quello di una ragazzina francese, timida e inesperta, che attende il ritorno dell’uomo che ama, e che non tornerà. A differenza del pubblico, che lo intuisce, lei ancora non lo sa, dunque è anche da spettatori che si è preda dell’attesa, del momento in cui ogni verità salterà al pettine. La sua presenza, nel frattempo, restituisce ad Anna – seppur idealmente – il figlio perduto; i vestiti del lutto vengono abbandonati in favore dei colori, i drappi neri sugli specchi vengono strappati via, il cibo riprende forma e sapore, prima della resurrezione, della celebrazione, della pace interiore.

L'AttesaGirato con un rigore stilistico assoluto, con un rispetto sacro nei confronti della geometria, dei corpi tagliati e dei simboli, L’Attesa incanta anche dal punto di vista visivo, del resto il segno lasciato dalle esperienze di This Must Be the Place e La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino è molto evidente nel regista siciliano. Chiudono il cerchio una Lou de Laâge di una bellezza disarmante, nelle sue spalle strette, le sue forme incantevoli e gli occhi di ghiaccio, e una Juliette Binoche gigantesca, da premio, china su un materassino gonfiabile a respirare l’anima di chi non c’è più. Ogni suo sguardo parla più delle sue parole, e fuoriesce dallo schermo sotto forma di pura emozione. Non è difficile ritrovare in lei lo spirito delle nostre stesse madri, che ci vorrebbero a casa sempre un giorno in più del possibile, che ci vorrebbero più vicini, più presenti, più complici. Capita invece di delegare tutto all’attesa, al domani, finché un giorno ci si risveglia e ci si accorge che il tempo è stato crudele, infame, e ogni possibilità di recuperare il terreno è sfumata. Recuperiamo tutto, adesso, finché ci è possibile.

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