What’s love got to do with it, recensione del film con Lily James

C’era una volta una principessa, e adesso non c’è più. È come se il fumo che immerge il volto di bambini diventati adulti, si elevi allo spegnimento di ogni candelina a coltre nebbiosa che allontana il sogno, lasciando spazio all’impatto con la realtà. Compleanno, dopo compleanno, ci muoviamo in spazi desolati, sconosciuti; ci incamminiamo lungo i sentieri dell’esistenza colmi di speranza, per poi inciampare sempre sullo stesso ostacolo.

 

Imbastito da un’ironia intelligente e dall’umorismo tagliente, (presentato in anteprima alla 17.esima edizione della Festa del cinema di Roma) non intende mostrarsi nelle vesti di fiaba principesca, ma sguardo pungente sulla realtà. In Zoe (Lily James) scorre nelle vene quella speranza infantile di vivere il proprio “e vissero felici e contenti”, sebbene a muoversi silente nella mente sia l’eco di un monito che le ricorda la dura legge della quotidianità. Le fiabe vanno strette nel mondo delle donne di oggi; le loro pagine si sono ingiallite, e il racconto infuso di sogni e sospiri ha lasciato spazio a una gomma che tutto cancella, mentre gli occhi si svegliano dal sonno per affrontare il grigiore della realtà.

What’s love got to do with it: la trama

Zoe è una documentarista inglese di successo, mentre il suo vicino di casa Kazim è un oncologo di origine pakistana. Le loro famiglie sono cresciute fianco a fianco nella Londra multietnica. Quando Kazim comunica a Zoe di volersi sposare secondo la tradizione, ovvero lasciando scegliere ai suoi genitori la sua sposa, Zoe decide di girare un documentario sui matrimoni combinati (anzi, “assistiti”, come vuole la nuova dicitura) dal titolo Love (contr)actually. Quello che ne deriverà è uno scontro con i propri sentimenti e con emozioni tenute per troppo tempo a freno.

Giostre di anime perdute

Scorre silente e leggiadra, tra gli inframezzi del film di Shekhar Kapur un’ordinarietà che aspira a vivere di colori, ma che si ritrova, a fatica, a ricercare nello spazio di un mondo che vive di ambizionim ed è sovraesposto a continue aspettative la propria metà della mela. La commedia di Kapur è un saggio sull’amore contemporaneo, sulle difficoltà di trovare la propria anima gemella, o anche solo un partner che possa compensare quel vuoto lacerante che si fa spazio dentro di noi.

Siamo un mondo di anime perdute, che vagano sole illuminate dallo schermo di un pc; anime che passano incuranti le une di fronte alle altre, senza sapere che il defibrillatore che potrebbe farci riprendere il proprio battito cardiaco è lì, a pochi sentimenti da noi.

Un’incuranza che spinge ancora molti giovani a riporre la propria fiducia su un matrimonio combinato, nella speranza che sia il caso a svoltare il proprio destino, livellando una mancanza interiore che si fa sempre più profonda, sempre più insistente. Ed è inseguendo chi non crede nell’amore, o chi lo cerca a tutti i costi, mentre le lancette dell’esistenza scorrono inesorabilmente, che il regista di origine indiana costruisce la propria giostra dell’amore. Un palcoscenico colorato, illuminato da luci calde, accese e brillanti, e pennellato, che eleva a perfetto correlativo visivo di due personalità giovani, genuine ed estroverse come Zoe e Kazim. Due anime incapaci, però, di farsi artefici del proprio destino, lasciando che a illuminare quel percorso impervio chiamato vita, sia la volontà e il desiderio imposto da altri. Ciechi e sordi, vagano soli, perdendosi, fino a ritrovarsi, e insieme a squarciare quel velo che impediva loro la vista reimparando a camminare mano nella mano. 

Sguardi riflessi

In questo gioco di luci e ombre, cuori che battono e altri che attendono di riprendere il proprio ritmo regolare, non è un caso se a inserirsi con discrezione, tra i raccordi di montaggio, è un elemento meta-cinematografico dal forte impatto simbolico. Per una donna come Zoe, che alla portata fantastica delle fiabe ha preferito la registrazione diretta della realtà, la velleità documentarista rivela uno slancio intimistico volto a ritrovare, tra lo spazio di una videocamera, un portale diretto con le proprie emozioni. Incapace di cogliere direttamente i segni che il mondo circostante le lancia circa la propria vita personale e professionale, è dalla riproduzione della propria opera, da quel riflesso sullo schermo, che Zoe si pone a confronto con i propri fantasmi interiori, e i propri  soffocati desideri. È il cinema che si fa specchio riflettente, visione speculare di se stessi; una mano che desta la ragazza dal torpore del sonno, per lanciarla finalmente nel proprio sogno dell’esistenza.

What’s love got to do with itIl viaggio dell’amore

È una pellicola che vive dei canoni imposti dalla commedia d’amore, What’s Love Got To Do With It; un’adesione perfetta che non lascia spazio a tentativi di sabotaggio, o ribaltamenti interni, da parte del proprio regista nei confronti del genere di appartenenza. Senza tradire le aspettative degli spettatori, l’opera si sviluppa su una certa prevedibilità di fondo. Un viaggio di celluloide, durante il quale lo spettatore non sente il timore di perdersi, perché ben conscio di quale sarà la destinazione finale.

Ma se la meta è certa, è il modo in cui il viaggio si sviluppa,  e le tappe intermedie che lo tocca, che è tutto da scoprire; investendo di un umorismo coinvolgente la propria opera, e affidandosi al talento dei propri interpreti, il regista riesce là dove molti mancano: far ridere e commuovere, senza scadere mai nell’esacerbato sentimentalismo. Un’operazione riuscita nella sua semplicità, inserendo punti di svolta e cadute dell’eroe a volte imprevedibili e capaci di sorprendere. Il suo What’s Love Got To Do With It scorre pertanto senza intoppi lungo un rettilineo asfaltato e puntellato di alacre freschezza. Un percorso che ammalia, diverte e intrattiene, la cui destinazione alquanto nota e prevedibile è solo un surplus interiore per un viaggio lungo cui lasciarsi trainare e trasportare con allegria e commozione.

Tra gioie e dolori

È un universo perennemente in collisione, eppure in equilibrio su se stesso, What’s Love Got To Do With It. Una costruzione filmica che cerca il punto di declino, per risalire a testa alta, donando una giusta dose di ottimismo al proprio pubblico. Infuso di un calore domestico e familiare, il mondo di Zoe e Kazim è però sempre minacciato dalla comparsa lancinante di un dolore; è una sofferenza latente, che sbuca e distrugge dall’interno non appena la consapevolezza dei propri errori fa il proprio agguato, e la ragione lascia spazio all’emotività. Una fitta dolorosa che tutto prende e raffredda, scolorendo i colori, e raffreddando i toni. Il rosso dell’amore sperato, agognato, sognato, lascia spazio al blu della notte della mente e del buio dell’anima. Un rapporto dicotomico di uno scarto ambivalente di  attrazioni represse, e sentimenti sottaciuti. Un microcosmo che trova nel personaggio di Zoe il proprio asse terrestre attorno al quale stabilire il proprio moto rotatorio, lasciandosi cullare tra i suoi difetti e pregi, vizi e tante virtù.

Lily James e la sua solarità donano un che di magico, un tocco unico e particolare al mondo di Zoe, che perfetto non è. Una vitalità pronta a lasciarsi adombrare dalle proprie insicurezze, mentre fuori tutto pare una festa. Una lotta interna, la sua, e in continua esecuzione, tenuta nascosta agli occhi del mondo, soprattutto se a osservarla sono sguardi pieni di gioia e irrefrenabile ottimismo come quelli della madre (una gioiosa e inarrestabile Emma Thompson). Ne consegue un ulteriore lettura empatica e interpersonale, dove al desiderio di coppia, si affianca il rapporto a volte conflittuale, e colmo di incomprensioni tra madre e figlia. Uno scarto generazionale, di giovani che sentono il peso delle ambizioni genitoriali, e genitori che riversano sui figli semi di sogni e speranze che loro stessi non sono stati in grado di coltivare, e che fanno dell’opera di Kapur una pellicola a tutto tondo, di cuore e di pancia.

Sebbene edulcorato nei modi e nella risoluzione di conflitti complicati, il film di Kapur riesce comunque ad ancorarsi al mondo che ci scorre attorno, non cedendo mai alle grinfie dell’irrealtà, ma confezionando un abito perfettamente aderente alla quotidianità tanto di Zoe, che del proprio pubblico. Una realtà fatta di giovani sognatori, con gli occhi pieni di speranze, che trovano nel riflesso di uno schermo cinematografico quella fiamma bruciante che accendi il proprio fuoco interiore e illumini loro il cammino. 

- Pubblicità -