Le fantome d’Ismael: recensione del film con Marion Cotillard #Cannes70

Le fantome d'Ismael

Realizzare oggi un film che sia originale dalla prima riga di sceneggiatura sino all’ultima è impresa quasi impossibile, e Arnaud Desplechin con il suo ultimo lavoro Le fantome d’Ismael neppure ci prova a farlo. Il suo cinema ha sempre puntato, e punta ancora adesso, a tutt’altro: a una scrittura complessa, emozionale, giocosa, a una direzione solida degli attori, ad inquadrature in grado di raccontare e creare atmosfere anche in silenzio.

 

Se Olvier Assayas allo scorso Festival di Cannes, il numero 69, ha raccontato i fantasmi attraverso gli smartphone e gli abiti di lusso, l’autore di Racconto di Natale sceglie oggi temi più inflazionati come l’amore, la nostalgia, l’arte, i sogni infranti e perduti, il riscatto, scegliendo un registro a dir poco particolare. Le linee di trama ci sono, ma non sono affatto fondamentali, ci trasportano avanti e indietro nel tempo come a voler risvegliare ricordi ormai sopiti, lo sfondo perfetto per un racconto fatto di volti, di carne e sangue, di passione e occasioni perdute.

Le fantome d'IsmaelIn Le fantome d’Ismael Charlotte è scomparsa da vent’anni, riposa in una tomba vuota e umida, poiché il suo corpo in realtà non è mai stato ritrovato; defunta solo per comodità legale, per egoismo di chi l’ha cercata per anni, invano. Charlotte invece è viva e vegeta, è soltanto scappata a vent’anni da una vita che la rendeva infelice, appesantita, e ora ha deciso di tornare senza dire niente a nessuno. Della sua vita passata sono rimaste soltanto macerie, un marito distrutto e un padre anziano ormai senza speranza, legato solo a vecchie e sfocate fotografie, è però forte la sua voglia di ricostruire tutto dalle fondamenta.

Ismael, quello che era l’uomo della sua vita, si è ora risposato, ma poco importa con il grande piano di Charlotte, anche perché è forte il dubbio che tutto questo – il ritorno in grande stile alla vecchia vita – sia soltanto mentale, ideale. È sempre Ismael, artista e regista nevrotico, schizzato e trasandato, a inventare tutto con minuzia di dettagli. Questo Desplechin non ce lo dice in modo esplicito, ma basta rimettere insieme tutti i pezzi del puzzle che abbiamo a disposizione, uniti insieme soprattuto nel finale d’opera, durante il quale lo stesso protagonista paragona il suo film-dentro-il-film – e così la sua vita –  ad un dipinto di Jackson Pollock. Nelle linee apparentemente astratte e insensate si nasconde invece la ragione, la poesia, la linearità della vita.

Le fantome d'IsmaelProbabilmente per questo motivo il regista francese confeziona un film slegato in superficie, un omaggio al cinema noir e alla “nuova ondata” d’oltralpe con uno scopo ben preciso fra le righe, diretto con rigore stilistico e licenze poetiche sparse qua e là. La sua macchina da presa danza, gioca, gira su se stessa e crea dipinti dinamici, atmosfere emozionanti e momenti passionali, tutti rafforzati dagli ottimi interpreti. Charlotte Gainsburg e Marion Cotillard sono nemiche eppure complici, opposte eppure simili, portano a compimento la loro missione con grazia e sensibilità, soprattutto la prima – a cui è affidato l’intimo l’epilogo. A dirigere l’orchestra però è Mathieu Amalric, una vera e propria scheggia impazzita che genera paure e ricordi, fantasmi e desideri usando il corpo e la voce.

Le fantome d’Ismael finisce dunque per essere un viaggio mistico nella mente del suo protagonista folle e traumatizzato, dei suoi incubi ricorrenti e vividi, narrato con un linguaggio cinematografico che colpisce ognuno in modo soggettivo. Un inno visionario al fluire irrefrenabile della vita, che ha sempre un piano B e un modo per risorgere dalle sue stesse ceneri.

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