Eva: recensione

Eva film

Quello del rapporto essere umano/macchina è un tema ormai pienamente inserito nell’immaginario collettivo cinematografico e non, spunto universale di riflessione che negli anni ha dato vita ad opere di prim’ordine quali, solo per citarne alcune, Blade Runner o I.A. Intelligenza artificiale.  Ora, a cimentarsi nel genere sci-fi è il giovane iberico Kike Maìllo, classe 1975, che nel 2011 firma la regia del suo primo lungometraggio, presentato fuori concorso al Festival di Venezia: Eva.

 

Daniel Bruhl, lanciato anni fa in Goodbye Lenin, interpreta Alex Garel, rinomato ingegnere cibernetico che torna alla città natale di Santa Irene per terminare il progetto intrapreso 10 anni prima: creare un robot bambino. Si insedia così nella casa paterna, riordinata a dovere da Max (irresistibile l’interpretazione di Lluìs Homar), maggiordomo meccanico tutto fare.

Presto Alex scoprirà che, durante la sua lunga assenza, l’ex fidanzata Lana (Marta Etura) ha avuto una bambina dal fratello David (Alberto Amman). Brillante, spiritosa, anticonformista, Eva (ottima la prova di Claudia Vega) è decisamente lontana dai canoni comportamentali dei suoi coetanei: ad Alex basta un incontro per capire che sarà lei a fornirgli il modello su cui basare il processore del futuro SI-9, l’androide assegnatogli dalla direttrice della Facoltà di Robotica Jùlia. Tra i due nascerà un legame speciale, una complicità che aprirà la strada a rivelazioni finali inaspettate quanto drammatiche.

Girata in 11 settimane tra le steppe innevate di Chaux-de-Fonds, Svizzera, l’opera prima di Maìllo unisce drammaturgia e fantascienza, fondendo il lato emotivo della storia con quello squisitamente tecnologico. Ambientato nel 2041, il film delinea i contorni di un universo eco-futurista in cui uomini e macchine convivono pacificamente. Ma l’equilibrio su cui poggia la coesistenza tra le specie rivelerà ben presto la sua fragilità: una fragilità che deriva dalla duplice natura dell’androide, organismo meccanico ma al tempo stesso animato da sentimenti “genuini”, incapace di rendere compatibili fino in fondo i due aspetti del proprio essere. Al centro, la figura di uno scienziato-genio che, novello Frankenstein, vuole essere l’artefice di una nuova vita: una creatura robotica da amare come fosse “vera”.

Arricchito dalla fotografia (splendida) di Colomer e abilmente sceneggiato dal catalano Sergi Belbel, il lungometraggio di Maìllo si è meritatamente portato a casa il premio per gli effetti speciali al Sitges (Festival Internazionale del cinema della Catalogna), oltre ad un premio collaterale ottenuto a Venezia. Le musiche, firmate da Evgueni e Sacha Galperine, contribuiscono all’atmosfera nostalgico-onirica che caratterizza il film, talentuosa realizzazione che si inserisce a pieno titolo nel filone del thriller fantascientifico.

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Ilaria Tabet
Laureata alla specialistica Dams di RomaTre in "Studi storici, critici e teorici sul cinema e gli audiovisivi", ho frequentato il Master di giornalismo della Fondazione Internazionale Lelio Basso. Successivamente, ho svolto uno stage presso la redazione del quotidiano "Il Riformista" (con il quale collaboro saltuariamente), nel settore cultura e spettacolo. Scrivere è la mia passione, oltre al cinema, mi interesso soprattutto di letteratura, teatro e musica, di cui scrivo anche attraverso il mio blog:  www.proveculturali.wordpress.com. Alcuni dei miei film preferiti: "Hollywood party", "Schindler's list", "Non ci resta che piangere", "Il Postino", "Cyrano de Bergerac", "Amadeus"...ma l'elenco potrebbe andare avanti ancora per molto!