Con Split M. Night Shyamalan torna finalmente in piena forma, firmando un thriller psicologico che riporta in superficie tutte le ossessioni e le qualità che lo hanno reso un autore unico nel panorama contemporaneo. Dopo l’apprezzato The Visit, il regista collabora ancora una volta con Jason Blum e la Blumhouse Productions, confermando che i budget contenuti e il controllo totale sul racconto rappresentano la sua dimensione ideale.
Il film, uscito in sala il 26 gennaio, vede protagonisti un intenso James McAvoy, una sorprendente Anya Taylor-Joy e la veterana Betty Buckley, per una storia che intreccia orrore, introspezione e tragedia umana.
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Il doppio, il trauma e l’identità frammentata
La trama ruota intorno a Kevin Wendell Crumb, uomo affetto da disturbo dissociativo dell’identità, nel cui corpo convivono ventitré personalità distinte. Quando una ventiquattresima – “la Bestia” – inizia a emergere, Kevin rapisce tre ragazze adolescenti e le rinchiude in un luogo sconosciuto. La sua psichiatra, la dottoressa Fletcher, intuisce che qualcosa di mostruoso sta per manifestarsi, ma sottovaluta la portata del male che si sta preparando.
Sin dalle prime scene, Shyamalan costruisce un senso di tensione claustrofobica che si riflette nella regia: corridoi stretti, stanze chiuse, inquadrature ravvicinate e luci livide trasformano lo spazio in un’estensione della mente del protagonista. È come se ogni parete riflettesse un frammento della sua psiche spezzata. Lo spettatore, intrappolato con le vittime, percepisce l’instabilità di Kevin e ne condivide le oscillazioni, passando dalla curiosità all’orrore puro. L’abilità del regista sta nel farci vivere simultaneamente due piani: quello fisico della prigionia e quello mentale di una battaglia interiore in cui personalità e memorie si contendono il controllo.
Shyamalan riprende qui i temi cardine della sua poetica: la paura come manifestazione del dolore, la solitudine come condanna e rifugio, la sottile linea che separa il reale dal sovrannaturale. Casey, la protagonista interpretata da Anya Taylor-Joy, rientra perfettamente nel suo universo di personaggi feriti. Come Malcolm Crowe in Il sesto senso o David Dunn in Unbreakable, anche lei vive isolata, incapace di comunicare con il mondo. Ma proprio questa condizione di fragilità diventa la chiave per sopravvivere e riconoscere il lato umano nascosto nel mostro.
La tensione non nasce da ciò che vediamo, ma da ciò che intuiamo: Shyamalan dosa le informazioni con sapienza, in puro stile hitchcockiano, lasciando che la suspense si accumuli in piccoli gesti, dettagli e silenzi. L’orrore, come nelle sue opere migliori, è psicologico prima che visivo. Ogni scena diventa un passo verso un finale che ribalta le aspettative senza tradire la logica del racconto.
James McAvoy e il ritorno dell’autore
Il cuore pulsante di Split è la performance di James McAvoy, che offre una prova d’attore eccezionale, degna di una nomination all’Oscar. In ogni transizione tra le personalità di Kevin – dal bambino spaventato al maniaco controllato, dalla donna rigida al predatore animalesco – McAvoy muta postura, tono, ritmo respiratorio. È un lavoro di precisione quasi teatrale, ma mai compiaciuto. L’attore riesce a restituire la complessità di un uomo distrutto dalla propria mente, rendendo credibile l’impossibile. La sua “Bestia”, quando infine emerge, è un mostro che suscita insieme terrore e pietà, incarnazione fisica di un dolore irrisolto che divora tutto.
Accanto a lui, Anya Taylor-Joy conferma il talento già rivelato in The Witch. Con pochi dialoghi e un’espressività magnetica, costruisce un personaggio sfaccettato, distante dallo stereotipo della “final girl”. Casey non reagisce con isteria ma con lucidità, frutto di un passato segnato dal trauma. È la sopravvissuta che riconosce il male perché lo ha già incontrato, e in questa consapevolezza risiede la vera forza del film.
Dal punto di vista tecnico, Split rappresenta un ritorno alle origini per Shyamalan. L’uso della macchina da presa è rigoroso, mai gratuito; la fotografia di Mike Gioulakis alterna toni freddi e caldi per sottolineare i cambiamenti interiori del protagonista; il montaggio è teso e chirurgico. Il regista ritrova quella sintonia tra narrazione e messa in scena che aveva perso nei suoi film più ambiziosi ma meno riusciti. Persino l’umorismo nero, introdotto con The Visit, qui si affina: non alleggerisce la tensione, ma ne amplifica l’assurdità, come un sorriso disturbante che precede l’abisso.
Ma Split non è solo un esercizio di stile. È anche una riflessione sul potere dell’immaginazione e sulla natura del male. Shyamalan suggerisce che la mente umana può diventare tanto fragile quanto divina, capace di plasmare la realtà e superare i limiti fisici. “La Bestia” non è solo un’entità soprannaturale: è la manifestazione della rabbia e del dolore accumulati in anni di abusi, un simbolo dell’evoluzione perversa della sopravvivenza.
Il film, pur restando ancorato al genere thriller, si muove su un terreno più metafisico, dove la malattia mentale diventa una lente attraverso cui osservare il confine tra umano e mostruoso.
L’ultimo atto, teso e sconvolgente, si chiude con una rivelazione che ricollega il film all’universo di Unbreakable, creando una connessione inaspettata che ridefinisce tutto ciò che abbiamo visto. È in quel momento che comprendiamo quanto Split non sia un semplice horror, ma il tassello di un mosaico più grande, una riflessione sulla fragilità e la potenza dell’uomo, destinata a proseguire con Glass.
Split
Sommario
Un thriller psicologico intenso e intelligente, dove Shyamalan ritrova ispirazione e misura.
McAvoy straordinario, Taylor-Joy rivelazione: Split è la rinascita del regista.


