Femme Fatale, diretto da Brian De Palma e uscito nel 2002, rappresenta uno dei capitoli più audaci e sperimentali nella filmografia del regista. Celebre per il suo stile visivo inconfondibile e per l’omaggio costante al cinema di Alfred Hitchcock, De Palma costruisce con questo film un thriller erotico e ingannevole, denso di rimandi cinefili, giochi di specchi e ribaltamenti narrativi. Con Rebecca Romijn (celebre Mystica nei primi film degli X-Men) nei panni di una misteriosa truffatrice e Antonio Banderas in quelli di un fotografo coinvolto suo malgrado in un intrigo internazionale, Femme Fatale si presenta come un’opera ambiziosa e seduttiva, in cui nulla è come sembra.
Il film si muove all’interno del genere noir, ma lo rilegge con uno sguardo metacinematografico, alternando scene ad alto tasso di tensione a momenti più onirici e surreali. L’intreccio si dipana attraverso colpi di scena e sequenze visivamente virtuosistiche – come l’incredibile furto al Festival di Cannes nei minuti iniziali – rivelando ben presto il gusto di De Palma per la manipolazione narrativa e la disorientante fluidità dei punti di vista. La protagonista femminile, seducente e ambigua, incarna alla perfezione l’archetipo della “femme fatale”, ma si fa anche simbolo di un’identità in continuo mutamento, capace di sfuggire a ogni definizione.
Uno degli elementi più affascinanti del film è proprio il suo finale, che spiazza lo spettatore e rimescola completamente le carte narrative, costringendo a tornare indietro alla ricerca di indizi che anticipino questa conclusione. Nei paragrafi successivi di questo articolo analizzeremo nel dettaglio proprio le ultime scene di Femme Fatale, offrendo una spiegazione che ne chiarisca la struttura, il significato simbolico e la rilettura del genere noir da parte di De Palma. Perché il film, dietro il suo velo di mistero e sensualità, cela un complesso gioco tra illusione e realtà, destino e libero arbitrio, che merita di essere decifrato con attenzione.
La trama di Femme Fatale
Il film segue le vicende di Laure Ash (Rebecca Romijn), abile, esperta ed affascinante ladra. La storia prende il via nel 2001 in Francia: al Festival di Cannes sfilano sul red carpet le star del cinema, tra cui la modella Veronica (Rie Rasmussen), vestita unicamente da un preziosissimo gioiello a forma di serpente, fatto di oro e diamanti. Fingendosi una fotoreporter, Laure riesce a entrare e a sedurre la vip a cui ha intenzione di rubare il prezioso abito. Tuttavia qualcosa va storto e la ladra si trova costretta a scappare con la refurtiva, lasciando i complici Black Tie (Eriq Ebouaney) e Racine in balia della polizia.
Passano sette anni, durante i quali Laure ha assunto l’identità di Lily – una parigina a lei perfettamente identica, suicidatasi dopo la morte del marito e del figlio – e si è trasferita negli Stati Uniti, dove si è sposata con il ricco diplomatico Bruce Watts (Peter Coyote). Durante un viaggio col marito a Parigi, la donna viene fotografata dal paparazzo Nicolas Bardo (Antonio Banderas): l’immagine arriva all’attenzione di Black Tie, da poco uscito di prigione per la rapina di sette anni prima. Per Laure è dunque arrivato finalmente il momento di fare i conti col passato.
La spiegazione del finale del film
Nel terzo atto di Femme Fatale, la narrazione prende una svolta vertiginosa che rimescola l’intero impianto del film. Dopo una lunga fuga e una serie di rivelazioni ingannevoli, Laure si ritrova dunque coinvolta in un pericoloso intrigo che la mette di fronte ai suoi vecchi complici, decisi a vendicarsi per il doppio gioco da lei orchestrato anni prima. Nel crescendo finale, Laure è catturata proprio dai suoi ex complici che la torturano per sapere dove ha nascosto i gioielli. Il paparazzo Nicolas tenta invano di salvarla, e in un momento di estrema tensione, la situazione precipita in tragedia: Laure viene uccisa. È a questo punto che il film sorprende lo spettatore con un colpo di scena destabilizzante.
Laure si sveglia improvvisamente nella vasca da bagno dell’hotel, rendendosi conto che tutto quanto accaduto dopo il furto – dall’incontro con Nicolas alla sua stessa morte – non è altro che un sogno o una visione premonitrice. Ha ricevuto una sorta di secondo sguardo sul futuro che la attende se sceglierà di tradire i suoi complici. Laure, a questo punto, decide di cambiare il corso degli eventi. Si reca sul luogo del crimine e, armata di questa nuova consapevolezza, riorganizza il furto in modo che vada diversamente. Tradisce comunque i suoi complici, ma in modo meno crudele, riuscendo a eludere ogni vendetta futura. Rinuncia alla vita da fuggitiva e lascia la Francia con una nuova identità.
Nel finale definitivo, Nicolas la rivede casualmente in strada, ma lei scompare tra la folla lasciandogli soltanto un sorriso enigmatico. La scena conclusiva suggerisce che Laure sia riuscita a riscrivere il suo destino, ma anche che il confine tra realtà e illusione resti sottilissimo. Il finale di Femme Fatale si colloca dunque nel solco della poetica di Brian De Palma, maestro del doppio fondo narrativo, dell’ambiguità e del cinema che riflette su se stesso. Il sogno premonitore che salva la protagonista non è solo un escamotage per ribaltare la trama, ma un dispositivo che interroga la possibilità stessa di riscrivere la realtà attraverso la finzione.
Laure, che ha vissuto la morte nel sogno, sceglie di agire diversamente, rifiutando l’autodistruzione tipica della classica femme fatale e trovando una propria via d’uscita. Il finale, quindi, non solo destabilizza lo spettatore, ma ne riformula le attese. Tematicamente, dunque, il film affronta il libero arbitrio, la colpa e la possibilità di redenzione attraverso una narrazione circolare e metafilmica. Femme Fatale non è solo un omaggio al noir classico, ma anche una riflessione postmoderna sulla costruzione dell’identità e sull’illusione cinematografica. Come spesso accade nei film di De Palma, l’immagine domina, la verità è soggetta a manipolazione e ogni certezza può dissolversi in un riflesso.