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Quentin Tarantino e il postmodernismo: la globalizzazione e il frammento.

Nel 1967, Robert Aldrich, noto regista di film di vario genere, accomunati da un crudezza formale e di contenuto, gira Quella sporca dozzina; dieci anni dopo, Enzo G. Castellari, con non poche difficoltà di produzione, porta a termine Quel maledetto treno blindato. La prima pellicola, vuoi per la carica violenta, vuoi per il cinismo di fondo che caratterizza gli eroi protagonisti, cattura l’attenzione del cinefilo Quentin Tarantino; lo stesso regista, noto per l’enciclopedica cultura cinematografica specializzata in B-movie, riscopre la pellicola di Castellani, ed è subito amore: il creatore di Pulp fiction, intende omaggiare la pellicola di Castellani, proponendo una versione di Inglorious Bastards (questo il titolo di produzione di Quel maledetto treno blindato), che risenta del fascino subito dal film di Aldrich.

In ogni caso, e quale fosse il ritmo, la sorte ci premiava,
perché a voler trovare connessioni se ne trovano sempre,
dappertutto e tra tutto, il mondo esplode in una rete,
in un vortice di parentele e tutto rimanda a tutto, tutto spiega tutto…
(Umberto Eco)

Queste le premesse per l’ultima impresa di Quentin Tarantino, che già prima dell’uscita nelle sale si propone,  coerentemente alla poetica d’autore del regista, come creazione a partire da. Il presupposto di base è sempre l’amore di Tarantino per il cinema, che sfocia nella suo desiderio di omaggiare e ri-creare a partire da soggetti preesistenti, all’insegna di un citazionismo folle e maniacale. Ma se il pastiche cinematografico riesce spesso a proporre forme e situazioni decisamente originali, c’è da dire che alle volte il tutto si limita ad una sorta di esperimento ricreativo intento a riesumare quelle pellicole sottaciute e misconosciute che fanno breccia nell’animo del regista.

Ora, prima di abbandonarci  a critiche e giudizi gratuiti privi di analisi, avviamoci a contestualizzare la figura del regista all’interno del panorama cinematografico e non solo.  I prodotti tarantiniani sono ovviamente riconducibili alla logica postmoderna del collage e della combinazione di elementi preesistenti: la memoria agisce come elemento predominante all’interno di tale situazione culturale,  ove nulla è nuovo e tutto è stato precedentemente enunciato. In virtù di ciò, i registi coerenti(volenti o nolenti) alla corrente postmoderna, affondano le loro mani nel flusso incoerente delle immagini della memoria.
Figlio del proprio tempo, Quentin Tarantino riesce a rielaborare tali presupposti in una chiave del tutto personale, andando a riscoprire immagini perdute setacciando prodotti ignorati e facendo rivivere, sia dal punto di vista puramente estetico che nel contenuto, situazioni e soggetti parossistici, i quali  -vuoi per le limitazioni di tipo produttivo, vuoi per le intenzioni dell’autore – si caricavano spesso di caratteristiche kitsch o trash. Tutto ciò, rielaborato all’interno di un prodotto fortemente autoriale, ma soprattutto magistralmente confezionato, crea all’interno del film un effetto tendente allo straniamento, che avviene quando vediamo rivivere all’interno dell’opera pellicole sgranate, improbabili colonne sonore anni ’70, e montaggi che invidiano le produzioni di serie Z.

Questo, proiettato ad uno spettatore abituato alla spettacolarizzazione e ad un’immagine sempre più nitida e lustrata, distoglie il pubblico dall’immagine pulita cui è abituato, e lo ricolloca all’interno di un prodotto, ove quelle situazioni volutamente fuori luogo e fuori tempo, risultati di sperimentazione ludica e/o di atti di riverenza nei confronti di quella parte di cinema da lui amata, suscitano uno spiazzamento che porta lo spettatore all’accettazione del gioco del regista. Per quanto riguarda la citazione, se spesso si è finiti con l’accusare il regista di plagio e mancanza di originalità, è pur vero che altrettanto spesso tali giudizi non hanno tenuto conto della creatività e delle modo in cui tale recupero avviene.

L’invidiabile cultura cinematografica permette a Quentin Tarantino di spaziare dai b-movie italiani a misconosciute pellicole orientali, riciclando materiale filmico all’interno di un prodotto finale, risultato appunto da generi e tradizioni cinematografiche disparate: la memoria del regista,  filtrata attraverso la coscienza postmoderna, si configura come un magma di materiale globalizzato, mescolato e rielaborato all’insegna di una visione del cinema scevra da settorializzazione nazionali.  Ed è proprio questa coscienza dell’imminente globalizzazione che motiva Tarantino a guardare al di fuori della propria cultura, spingendolo a collaborare più volte con registi come Miike  Takashi (anch’egli sempre aperto a nuovi orizzonti), e riuscendo a far coesistere all’interno della produzione americana generi quali il chanbara, gongfu e action.

Tale logica di de-costruzione del film matura nel corso degli anni, delineando una linea formale che da Le iene a Kill Bill, palesa ed estremizza la tendenza alla frammentazione del prodotto, e parallelamente si avverte col passare degli anni, l’inclinazione verso un cinema più spettacolare e meno pregno.

All’interno di questo quadro, la citazione contribuisce alla decostruzione del film: è tanto forte da brillare di luce propria, e da riuscire-insieme con gli elementi della cultura avantpop che pur contaminano il film- a frantumare il film in tante piccole situazioni a sé stanti, figlie della società dello zapping e celebrative della perdita dell’attenzione che caratterizza lo spettatore con cui Tarantino si confronta; summa della poetica tarantiniana, Le iene  e Pulp fiction, hanno dato vita a tutto questo, con i loro dialoghi totalmente avulsi dal contesto che sfiorano il surreale e svelano l’inadeguatezza dell’immagnie, con la negazione del racconto cronologicamente inteso, con i sottili riferimenti ora al cinema americano ora alla mafia giapponese, il pulp, l’exploitation e bizzarre situazioni fagocitate e rigurgitate in una pellicola curata in ogni minimo dettaglio che vive proprio del caos che vi regna.

La prima svolta si ha con Jackie Brown: nella presentazione di un prodotto aderente  al noir, privo di quella frammentazione che opera su tutti i livelli del film (piano formale e sceneggiatura), si in riconosce in Tarantino la maestria di dirigere una pellicola impeccabile, che rinnova il genere tramite personaggi e i dialoghi brillanti, pur non ricorrendo a situazioni estreme ma riproponendo contesti e circostanze caratteristiche del genere cui appartiene. Tarantino dimostra di essere un ottimo regista e un geniale sceneggiatore pur senza eccedere, muovendosi con mano ferma all’interno di una narrazione classica contaminata di riferimenti all’blaxploitation.

Ma le prime titubanze si hanno nel quarto film del regista, Kill Bill, in cui Quentin Tarantino non è all’altezza delle prime produzioni; il film, nato all’insegna del puro divertissement, sembra fare il verso al cinema del sol levante, il quale viene riproposto in maniera  smisurata. Se da una parte si riconosce il merito di saper mischiare genere diversi e proporre personaggi che sfiorano il parossismo, dall’altra pecca in profondità: dedito quasi ad un tecnicismo senz’anima Tarantino si concede alla superficialità dell’immagine, abbandonando i dialoghi che trionfavano nelle prime produzioni e palesando una spettacolarizzazione del ritmo e degli eventi. La fredda violenza che caratterizzava Le iene viene sostituita dall’autocompiacimento a dal patetismo; nessuna sperimentazione trova spazio ma c’è solo idolatria verso il cinema di culto.

Dimentico dei primi capolavori, Tarantino si abbandona ai ritmi degni dell’action movie più piatto, riempiendo il film di un vuoto dinamismo. La velocità e l’action, da interpolazioni che erano in un cinema fatto di dialoghi e sequenze memorabili,  finiscono col diventare il senso ultimo di un opera che si svuota e si carica della portata spettacolosa che caratterizza molto cinema commerciale. Se la parola era la co-produttrice di senso all’interno del film, arrivando anche ad anticipare l’immagine palesandone l’inefficienza, è pur vero che con il quarto film dell’autore, la parola viene soppiantata a favore dell’azione e del sentimentalismo, rinunciando alla freddezza che caratterizzava le opere prime.

Ma dopo il divertito Kill Bill, Quentin Tarantino sembra ritornare sui suoi passi con A prova di morte, ove road movie e dialoghi brillanti tornano a prender forma; ora, anche se all’interno del progetto Grindhouse il film di Tarantino risulta fuori luogo rispetto al più riuscito Planet terror di Rodriguez, si intravede un ritorno ai toni più tarantiniani.

Forti di ciò, aspettando Bastardi ingloriosi, speriamo nel ritorno ad un pensiero più critico e complesso del film, auspicando un prodotto che sia ancora il frutto di un profondo amore per la settima arte; che sia scevro da facili soluzioni coinvolgenti e lontano dai paraventi che caratterizzano molte produzioni comuni; che sia orientato in profondità, verso lo sperimentalismo e le riflessioni che hanno fatto di questo autore uno dei più grandi autori del nostro tempo.

 

La tendenza alla cecità. Considerazioni disordinate non riordinabili (forse).

C’erano una volta e ora ce ne sono di meno, dei film che impressionavano per il loro contenuto violento e che venivano spesso accusati di ispirare reali manifestazioni di violenza all’interno della società. Ma la responsabilità dell’artista è più nell’opera in sé e meno negli effetti che essa produce, per quanto nefasti essi possano essere.

Dico che c’erano una volta perché ora poco o nulla sembra poter produrre in noi sconcerto. Siamo spettatori terribilmente svezzati, disincantati, smaliziati. Alla violenza che vediamo sullo schermo ci siamo ormai abituati, tanta ne abbiamo veduta, tanta ne vediamo e ne viviamo. La violenza è paradossalmente accettata e non sappiamo più ricevere dalla sua rappresentazione uno shock, non sappiamo più rimanerne sconcertati.

La vediamo dappertutto e dunque non è mai estranea, tanto ne siamo imbevuti. È conosciuta una volta per sempre, è classificata, incasellata in miliardi di servizi televisivi da paesi che ci sembrano ancora più lontani visti sullo schermo, è sterilizzata dal linguaggio giornalistico che funziona come una litote.

È la società dello spettacolo, la nostra, diceva Debord. L’immagine è al centro di tutte le possibili relazioni tra tutti i soggetti. E così produciamo immagini a iosa e ne siamo imbevuti. Ma è proprio questo vedere di tutto sempre acritico e passivo ad averci reso meno ricettivi, anche per quelle immagini che dovrebbero colpirci. Il sentimento della meraviglia si attenua. L’abitudine a vedere deve averci reso ciechi.

Del resto, fa notare Ghezzi nel suo castoro su Kubrick prendendo le definizioni del dizionario Inglese-Italiano Hazon, che “Overlook” significa tanto “guardare con attenzione” che “trascurare”, “lasciarsi sfuggire”. E così anche Edipo pur vedendo tutto era cieco, e solo quando dal troppo aver conosciuto si crepò gli occhi, tornò a vedere.

“What have you done to his eyes?”, urlava una (comprensibilmente) terrorizzata Rosemary guardando gli occhi di quel suo figlio avuto da sua maestà infernale. Cosa è stato fatto dei nostri occhi? Diversamente dal Gloucester di Re Lear, a noi non sono stati strappati. Piuttosto è stata loro strappata la capacità di farci assalire da questa o quell’altra visione: tutte si equivalgono, tutte hanno lo stesso sapore. I prodotti cinematografici sono sempre più prodotti seriali, pressoché simili. Del resto, quella del cinema è un’industria, fordiana, ma più nel senso di Henry che di John.

Avvertiamo dunque la falsità del dispositivo cinematografico e di ciò che esso mostra: è più chiaro a noi che a Welles che un film è sempre un fake, e come tale non ce ne facciamo suggestionare, così per la violenza in esso mostrata. Erano trent’anni fa o trenta secoli fa quando “Cane di paglia” e “Arancia meccanica” ci facevano paura?

Eppure necessitiamo di verità perché tutto ci sembra falso, tutto uguale, nulla ci impressiona realmente. Perché torniamo a impressionarci, è necessario che le cose ci appaiano veramente vere, e questo perchè forse siamo noi ad essere diventati un po’ più finti: anche noi parte del gioco della società dello spettacolo, con la nostra immagine da portare avanti. Diceva Alex De Large che non era affatto meccanico che “è buffo come i colori del mondo vero diventano veramente veri solo quando uno li vede sullo schermo”.

Ecco allora i mockumentaries: da “The Blair Witch project” fino a “Cloverfield”. Per potere essere impressionati di nuovo da ciò che viene mostrato sullo schermo, abbiamo necessità che esso sia dichiaratamente non-finto, che sia reale, presentato come documentario.

Come il santo straccione di Pasolini arrivava alla soluzione estrema di crepare davvero sulla croce perché non aveva alcun altro modo per ricordare di essere vivo, così anche noi ricorriamo all’estremamente finto (il mockumentary, documentario finto che finge d’essere vero) per poter essere ancora emozionati, perché ci appare estremamente vero.

Ecco anche i reality shows in ambientazioni esotiche… Perché non ci basta più vedere un altro normale show televisivo: ci siamo abituati.

Alex De Large ci sta molto più simpatico del suo carceriere (il secondino della prigione). Quest’ultimo è davvero “meccanico”, “a orologeria”, mentre Alex è vitale. Perché è questo mondo a volerci meccanicizzati, perché vorremmo sentirci vivi quando invece non lo siamo e abbiamo un disperato bisogno di verità dai realities ai mockumentaries perché solo così possiamo tornare a sconcertarci e a impressionarci, per assicurarci di non essere meccanici…

Influenze della cultura giapponese nel cinema di Andrej Tarkovskij

Alexander ascolta musica tradizionale giapponese. Ha indossato un kimono sul cui dorso sono effigiati i simboli Yin e Yang, bene e male. Come aveva promesso in una preghiera, per scongiurare la catastrofe nucleare annunciata, offre in pegno tutto ciò che possiede, e appicca fuoco alla propria abitazione, agendo come samurai silenzioso che ordisce un harakiri salvifico, sacrificando tutto. Questo accadeva in “Sacrificio”, ultimo lungometraggio di Andrej Tarkovskij.

Il regista sovietico ha più volte dichiarato il proprio profondo interesse per alcuni aspetti della cultura giapponese, nonché per alcuni cineasti nipponici: Kurosawa in testa, ma anche Mizoguchi e Ozu.

Si tratta dunque di un aspetto rilevante dell’opera del cineasta sovietico, ma ancora scarsamente analizzato. Sarebbe dunque interessante esplorare, anche per linee essenziali, i casi in cui questa influenza di certa cultura giapponese -cinematografica e non- si fa scoperta, e in che modo si cali nello stile e nella poetica tarkovskijana.

Si potrebbe prendere come esempio quello che da molti è considerato il capolavoro del cineasta sovietico: Andrej Rublev (1966), in cui appaiono delle somiglianze piuttosto marcate con delle situazioni di Rashomon (1950), il film che rivelò Kurosawa alle platee occidentali, ma anche con I sette samurai (1954), in particolare nella sequenza dell’assedio tartaro della città di Vladimir.

La trama di Rashomon prende avvio da questa situazione: tre uomini si riparano dalla pioggia presso il tempio del dio Rasho. Gli uomini narrano poi l’uno all’altro di un fatto di sangue avvenuto recentemente, ma in varie versioni, cambiando di volta in volta la persona responsabile del delitto, secondo più punti di vista, fino a non poter dire quale dei racconti risponda alla realtà dei fatti. L’incipit di Andrej Rublev, invece, è costituito dalla memorabile sequenza in cui un uomo tenta e riesce, anche se per poco, a levarsi in volo su un rudimentale aerostato. Dopo questo prologo, sganciato dalla vita del pittore di icone russo di cui il film racconta, è la volta del primo EPISODIO che ha a che fare direttamente con la vita di Rublev, intitolato “Il buffone”.

Vi sono tre monaci, Andrej Rublev, Daniil il Nero e Kirill, che, usciti dal monastero della Trinità, sono in cammino verso Mosca, dove intendono trovare lavoro come pittori di icone. Un temporale improvviso li costringe a ripararsi in una isbah dove un nutrito gruppo di contadini sta assistendo all’irriverente esibizione di un giullare: una satira scatenata dei nobili Boiardi e dei Pope, ovvero autorità politica e religiosa.

Poco dopo, il giullare, che è stato denunciato, verrà arrestato dalle guardie del Principe, sotto lo sguardo turbato di Andrej.

Già da qui si delinea uno dei temi fondamentali del film: il rapporto tra l’arte e il potere, ed è proprio questo primo episodio che Andrej vive come turbamento della propria coscienza di uomo e artista.

La situazione di base esaminata è identica sia nel film del maestro nipponico che in quello di Tarkovskij: in entrambi, tre uomini cercano riparo dalla pioggia, ed è proprio da qui che si sviluppa l’azione drammatica e vengono messi in luce i temi del film, è proprio da qui che si attiva il racconto.

Come scriveva De Baecque, nei film di Tarkovskij la pioggia attiva alcuni momenti dei film, è il mezzo attraverso il quale si rilancia il racconto, o si entra in una dimensione onirica.

Nei film di Tarkovskij è fortemente presente l’acqua, che sia pioggia, pozzanghera o fiume. In qualsiasi forma si trovi, essa si carica di significati profondi: sempre in Andrej Rublev, l’acqua è simbolo di rigenerazione per il giovane Boriska che trova sotto un temporale l’argilla necessaria a fondere una campana. Ma nel film l’acqua è anche elemento che “accoglie”, come accade con la donna pagana che sfugge alle autorità religiose nuotando nel letto di un fiume, o col cadavere del giovane pittore apprendista ucciso dai tartari durante l’assedio della città di Vladimir.

Altrove, come nel film Lo specchio (1974), l’acqua è spesso associata da Tarkovskij alla figura materna, come elemento generatore di vita.

Circa la ricorrenza di questo elemento nella sua opera, il regista ha affermato: “Ho usato l’acqua perché è una sostanza molto viva, che cambia forma continuamente, che si muove. È un elemento molto cinematografico. E tramite essa ho cercato di esprimere l’idea del passare del tempo e del movimento del tempo.”

È significativo che tra i corsi d’acqua tanto numerosi nell’opus tarkovskijano manchi pressoché del tutto il mare, fatte salve le inquadrature dell’oceano “pensante” di Solaris e l’incipit di Sacrificio. È il regista stesso a spiegarcene il motivo, rendendo scoperta un’altra eredità della cultura giapponese: “L’acqua, i ruscelli, i fiumiciattoli, mi piacciono molto, è un’acqua che mi racconta molte cose. Il mare, invece, lo sento estraneo al mio mondo interiore perché è uno spazio troppo vasto per me. […] A me, per il mio carattere, sono più care le cose piccole, il microcosmo, piuttosto che il macrocosmo. Le enormi distese mi dicono meno di quelle limitate. Forse per questo amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura.”

L’affermazione di Tarkovskij può essere ricondotta a un concetto fondamentale dell’estetica giapponese, quella del wabi. Tale termine ha, in giapponese, i significati “solitario”, “isolato”, “semplice”, “effimero”, “sobrio”, ed è messo in relazione con tutte le espressioni artistiche, dalla poesia all’architettura, che richiamino, appunto, i concetti di piccolezza, finitudine, singolarità.

L’estetica wabi si richiama a concetti di ascendenza buddhista che riguardano il trascendente e che fanno appunto leva sulla limitatezza e la transitorietà dell’esistente a fronte dell’infinito, ovvero il fueki-ryuko: impermanenza ed eternità, che sono gli elementi centrali dell’opera di Matsuo Basho, (che Tarkovskij lesse più o meno all’epoca in cui stava per lavorare ad Andrej Rublev), il più noto e influente poeta giapponese.

Per questi motivi, nell’arte giapponese è frequente il ricorso a elementi semplici e isolati.

Nella poesia giapponese, ad esempio, è facile incontrare espressioni come “un tempio” o “un ramo di ciliegio”, ma quasi mai si parla di più templi o di ciliegi.

A questo proposito cito un passo dell’Hagakure-Il codice dei samurai, di Yamamoto Tsunetomo:

“ ‘Sotto alla fitta neve dell’ultimo villaggio,/ieri notte sono sbocciati numerosi rami.’ In questa poesia sui pruni, c’era una ridondanza: ‘numerosi rami’; questa fu la variante: ‘un ramo solo è sbocciato’. Tale variante allude al gusto del wabi”.

Ritorna utile in tal senso anche una citazione da Note del Guanciale, di Sei Shonagon: “In verità, tutte le cose piccole sono belle”.

È proprio nella singolarità che si può scorgere il mistero della vita, è proprio all’arte che spetta, adornianamente, di far scorgere l’universale e l’assoluto nel particolare, fosse anche il più piccolo, ed è proprio ciò cui Tarkovskij, con l’attitudine contemplativa dei suoi piani sequenza, e con tutta la componente fortemente spirituale del suo cinema, sembra anelare.

Scrive il regista, nel suo libro “Scolpire il tempo”: “L’immagine [cinematografica] non è questo o quel significato espresso dal regista, bensì un mondo intero che si riflette in una goccia d’acqua, in una goccia d’acqua soltanto”.

Forse è ciò che accade negli haiku giapponesi: la possibilità di cogliere il mondo intero riflesso in una goccia d’acqua, tutto il mistero della vita in un evento o una sensazione singolari descritti in tre versi di 5-7-5 sillabe, allo stesso modo che un solo ramo di ciliegio è unico, irripetibile, ma reca in sé il mistero di tutti gli altri. Ma vediamo ancora le parole del regista su questo argomento: “Amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura. Cercano di concentrarsi su uno spazio ristretto e di vedervi il riflesso dell’infinito.”

La macchina da presa Tarkovskijana cerca il miracolo dell’evento quotidiano, quello che avviene tacitamente, di nascosto, come la figlia dello Stalker nel film omonimo, che sposta gli oggetti tramite telecinesi. O cerca, ancora, la meraviglia intrinseca degli elementi naturali, dai corsi d’acqua, agli alberi, alla terra, così ricorrenti nella sua opera, quasi volesse di essi carpire il mana nascosto, e lo fa con lente panoramiche, con uno sguardo contemplativo che fa pensare, a tratti, a certo Ozu o a Mizoguchi.

Tarkovskij sostiene che per pervenire a questa visione “contemplativa” della realtà che sa cogliere in un oggetto particolare la manifestazione di qualcosa di universale, occorre “coltivare la purezza, finezza, la compattezza dell’osservazione della vita per così dire allo stato puro degli haiku giapponesi”, quasi come si trattasse di un primo sguardo sulle cose del mondo, quando esse non hanno perso la loro aura, il loro mana, e non sono ancora classificate, ma ancora da scoprirsi.

Un cinema di così alta ispirazione spirituale e di elevata attitudine contemplativa viene da un regista che aveva sperimentato per tutto l’arco della sua parabola esistenziale e artistica, uno degli aspetti più raccapriccianti dell’orrore novecentesco (le pressioni e l’ostracismo della burocrazia del totalitarismo sovietico), che negando la vita afferma la distruzione e l’inquietudine, non concedendo alcuno spazio alla contemplazione e alla dimensione spirituale, e forse neppure alla stessa arte.

Il cinema di Tarkovskij, dunque, viene ancora a costituire un absurdum, come assurdo era l’harakiri di Alexander in Sacrificio, eppure è missione che va tentata.

Tarkovskij, che dichiarava di rivedere I sette samurai ogni qual volta girava un nuovo film, (così come Kurosawa si dichiarava grande estimatore di Solaris e Andrej Rublev), si arricchì enormemente di questa matrice culturale giapponese, poiché essa si conciliava con la cifra fortemente spirituale del suo cinema. Un cinema spirituale, ma attaccato alla terra e alla bellezza dell’immanenza, in cui non è dato vedere frequentemente il cielo, se non per il suo riflesso in una pozza d’acqua. Come a voler dare fueki-ryuko, impermanenza ed eternità.

La grande Opera. Alcuni aspetti del cinema di Alejandro Jodorowsky

Oggi, ai più, Jodorowsky è noto principalmente come autore di fumetti (disegnati da Moebius, Jimenez, o dal nostro Manara) o di romanzi (Quando Teresa si arrabbiò con Dio, La danza della realtà, Albina e il popolo dei cani, editi in Italia da Feltrinelli). Non sono in molti, invece, a ricordare oggi lo Jodorowsky cineasta, genio visionario e dissacrante, autore di un cinema debordante, fatto di situazioni surreali, grottesche o inquietanti, costanti riferimenti a tradizioni esoteriche…

La sua filmografia, fino a ora, sembra alquanto esigua: ha diretto i lungometraggi Fando y Lis-Il paese incantato (1969), El topo (1971), La montagna sacra (1973), Tusk (1979), Santa sangre (1988), Il ladro dell’arcobaleno (1991), eppure è ricca di motivi interessanti, sempre molto personali, benchè sicuramente vicini ad altri autori: Fellini, Bunuel, Kurosawa, Leone… Jodorowsky ha anche al suo attivo un progetto ambiziosissimo (era previsto, tra l’altro, il coinvolgimento di Salvador Dalì tra gli interpreti, e dei Pink Floyd alla colonna sonora) e irrealizzato: la trasposizione cinematografica di Dune da Frank Herbert, poi realizzato, con scarsa efficacia, dall’altro grande visionario David Lynch.

I più noti lavori del regista cileno (di genitori ebreo-ucraini) sono sicuramente El topo e La montagna sacra. Entrambi caratterizzano al meglio, in maniera cioè, più compiuta e matura, tutto il suo universo poetico, non solo cinematografico. Jodorowsky si è infatti cimentato con la letteratura, il fumetto, il teatro, e ha persino elaborato una forma d’arte che ha come fine la guarigione delle nevrosi dei pazienti: la “Psicomagia”. I due film più sopra citati hanno al proprio centro la tematica del viaggio iniziatico. Vediamone brevemente le trame:

El topo. El topo (che in spagnolo significa “la talpa”) è un abilissimo pistolero, vestito di nero (come Django/Franco Nero di Corbucci) che lascia il figlio in una missione francescana e per conquistare l’amore di una donna, Marah, accetta di misurarsi in duello con “4 maestri del revolver” che vivono nel deserto. El topo riceve da ognuno dei maestri un insegnamento, come fosse un iniziato. Il pistolero riesce a vincerli tutti, ma Marah lo tradisce e gli spara ripetutamente nelle mani, nei piedi e nel petto. Quando il pistolero si risveglia, è all’interno di una montagna. È stato accudito da una comunità di deformi, che lo credono una sorta di divinità. El topo promette loro di riportarli alla luce del sole, guidandoli alla città vicina attraverso un tunnel scavato nella montagna. Per guadagnare il necessario all’impresa, l’uomo si improvvisa saltimbanco nella città vicina, in compagnia di una nana innamorata di lui.

La città, simile ai vari villaggi western di cinematografica memoria, è abitata da una borghesia ipocrita e razzista, fintamente perbenista, sessualmente deviata e piena di fanatismo religioso che sconfina nella farsa. El topo ritrova suo figlio, divenuto adulto, che si unisce all’impresa del padre. Ultimato il tunnel, i deformi si precipitano verso la città, ma la borghesia riesce a decimarli tutti, mentre la nana partorisce un figlio, avuto col pistolero. El topo compie la sua vendetta sugli abitanti della città, del tutto immune ai loro proiettili. Mentre il pistolero si dà fuoco come un monaco tibetano, suo figlio, la nana e il nuovo nato, lasciano la città devastata. La montagna sacra. Prologo: un alchimista taglia completamente i capelli a due donne, come in un qualche rito iniziatico.

Un ladro, il cui aspetto ricorda quello dell’iconografia tradizionale di Cristo, dopo una serie di avventure surreali, giunge in cima a una torre, dove si trova il laboratorio di un alchimista, capace di tramutare le feci del ladro in oro. L’alchimista comincia a impartire i propri insegnamenti al ladro e gli propone di compiere una missione al termine della quale avrà l’immortalità. Insieme al ladro viaggeranno altri sette ladri, ma di un altro livello: sono i potenti della terra, industriali e uomini politici. Ognuno di loro è associato a un pianeta del sistema solare. Il gruppo dovrà giungere in cima alla montagna sacra dove risiedono i nove saggi che posseggono il segreto dell’immortalità e spodestarli. Il pellegrinaggio ha luogo tra varie difficoltà, in cui i viaggiatori affrontano le proprie ossessioni e partecipano a prove iniziatiche. Arrivati in cima alla montagna sacra, scoprono che i nove saggi altro non sono che fantocci. L’alchimista spiega allora che l’avventura sinora condotta altro non è che un film, e invita i personaggi a rompere l’illusione: “Se non trovammo l’immortalità almeno trovammo la realtà…Non siamo che sogni, immagini…Non possiamo restare qui prigionieri! Romperemo l’illusione! La vita reale ci attende: diciamo addio alla montagna sacra!”

El topo fu il film che rivelò Jodorowsky alle platee internazionali dei cultori del “cinema di mezzanotte”: il tal senso, il film fu “compagno di strada” degli altri cult che venivano proiettati esclusivamente in tarda serata: The rocky horror picture show, Pink Flamingos Fortuna volle che del film s’innamorò John Lennon, il quale fece in modo da finanziare il successivo La montagna sacra. Ciò che maggiormente stupisce, a una prima visione di queste opere, è sicuramente l’aspetto visivo, con il continuo, rutilante, innestarsi di situazioni surreali, a volte ridicole, altre inquietanti, spesso violente o dissacranti.

Ciò appare evidente, in particolare, nella prima parte de La montagna sacra, incentrata sulle peregrinazioni del ladro-Cristo prima che questi giunga alla torre dell’alchimista. Ciò che vediamo in questa prima sezione del film è una sorta di critica alle dittature militari tipiche di certi paesi dell’america latina (il film uscì nel 1973, anno del golpe in Cile, paese d’origine di Jodorowsky), ma condotta coi toni del surrealismo, a volte con esiti violenti (la parata militare in cui i soldati portano come vessilli degli agnelli impalati), a volte con toni poetici (si veda, ad esempio, la scena in cui dai corpi di giovani dissidenti fucilati escono dei passeri). E c’è anche la critica a certe istituzioni religiose, nella fattispecie cattoliche, ma la critica di Jodorowsky (che ha una spiritualità molto forte, benché non strettamente veicolata da alcuna confessione religiosa particolare) si avventa sulle istituzioni, sulla cultualità più sterile, sul clero più sclerotizzato convinto di possedere esso solo le verità assolute, come il vescovo che non accoglie nella propria chiesa il crocifisso che il ladro-Cristo porta con sé.

Quel che comunque costituisce senza dubbio la cifra tematica più personale di Jodorowsky è la componente esoterica-iniziatica dei suoi film. Già El topo, si rivela essere, per il protagonista (interpretato dallo stesso regista), un processo di iniziazione, di progressiva spogliazione dell’io, di maturazione da pistolero giustiziere che muore con ferite nelle mani, nei piedi, nel petto (come Cristo) e rinasce come monaco zen insensibile alla forza delle pallottole e morire poi definitivamente (?) arso da un lume a petrolio. È un processo di sottrazione graduale, di cammino verso l’ascetismo, come asceti sono i quattro maestri del revolver che il pistolero incontra nella prima metà del film. Ognuno di essi impartisce delle lezioni a El topo, attraverso delle massime (“La perfezione è perdersi”, dice il secondo maestro) o dei comportamenti, come il primo dei quattro maestri che rimane immune alle pallottole poiché il suo corpo non oppone loro alcuna resistenza, ma al contrario riesce ad accoglierle…

L’eroe jodorowskyano, se di eroe si può parlare, non deve essere totalmente esaltato e portato immediatamente in trionfo, ma al contrario deve essere martirizzato o compiere un viaggio che sia esperienza mistica. Così, vanno incontro a una sorta di spoliazione anche i potenti de La montagna sacra: parafrasando le parole dell’alchimista (interpretato da Jodorowsky stesso) nell’epilogo del film, i pellegrini partono per essere immortali, per essere dei ed eccoli invece finalmente, forse per la prima volta, più umani che mai. Ecco allora come può concludersi la ricerca dell’oro e dell’immortalità tanto perseguita dagli alchimisti e dallo stesso ladro-Cristo del film. È proprio lui, che abbandona il gruppo prima che l’alchimista-Jodorowsky riveli la finzione filmica, a divenire a propria volta “maestro”, seguendo il consiglio dell’alchimista che gli dice di dimenticare le vette e raggiungere l’immortalità attraverso l’amore.

Il processo di maturazione dei pellegrini e di El topo passa per una montagna: i primi dovranno scalarla, l’altro invece dovrà fare in modo che altri, i deformi, possano attraversarla. In particolare, ogni tradizione religiosa ha spesso a che fare con delle montagne (è lo stesso alchimista a ricordarlo nel film). La montagna costituisce un sepolcro per il pistolero e la comunità di deformi, da cui però si risorge andando incontro alla morte per mano della corrotta borghesia della città. Ad ogni modo essa rappresenterebbe comunque l’athanor, il forno che gli alchimisti usano per la trasformazione della materia, e la materia da trasformare, sembra dirci Jodorowsky, non siamo altro che noi stessi. Un po’ è quello che la sua personale “terapia” psicologica, la “psicomagia”, fondata sul potere della suggestione intende fare: curare attraverso l’arte.

È chiaro, un cineasta del genere, che spaventa con le sue visioni surreali, o cerca a suo modo ancora delle pietre filosofali, oggigiorno, persi come siamo tra una miriade di prodotti ad alto consumo, non troverebbe forse il “grande” pubblico, e dunque Jodorowsky sarebbe autore per pochi, su cui i produttori non investirebbero per non rischiare. Dice infatti scherzosamente e intelligentemente Jodorowsky: “il regista più bravo è sicuramente quello con più soldi. Se avessi 60 millioni di dollari sarei certamente io…”, ben consapevole del fatto che le restrittive leggi del (non così tanto) libero mercato, agendo sulle possibilità economiche, vincolano le possibilità espressive del singolo artista.

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