Flags of Our Father e Call of Duty: dallo schermo al gamepad

Flags of Our Fathers film

La sequenza presa in questione è tratta dal film Flags of Our Father, e l’analisi proposta si sviluppa tramite  un lavoro comparativo tra la sequenza del film e alcune sequenze tratte dal videogame di guerra Call of Duty; scopo di tale lavoro è quello di individuare assonanze tra le immagini di uno e dell’altro prodotto preso in questione avvalorando la tesi di una reciproca influenze tra i due mezzi analizzati mediata dallo sviluppo della computer grafica, e il conseguente cambiamento dell’estetica, del film e del videogame, proprio in virtù dell’influenza sopracitata.

 

La lunga sequenza dello sbarco

Prendiamo in esame la lunga sequenza dello sbarco delle truppe americane sull’isola giapponese di Iwo Jima,  teatro di violenti scenari di guerra, spesso accostata da molta critica alla sequenza dello sbarco in Normandia girata da Spielberg (che figura come produttore del film di Eastwood ) per Salvate il soldato Ryan. Tale affermazione risulta approssimativa nel momento in cui non tiene conto della spettacolarizzazione operata da Eastwood, il quale, diversamente dall’autore di Lo squalo, ricostruisce interi scenari in computer grafica, svincolando spesso la mdp dal suo referente indicale e puntando invece su una ricostruzione di intere scene in post-produzione; in tal senso, l’operazione compiuta accosta il film alle modalità di creazione operata dai videogame;  ovviamente non ci sarebbe nulla di particolare se tale intervento si limitasse ad una mera ricostruzione ex-novo operata dalla computer grafica: in realtà il film di Eastwood merita un approfondimento nel momento in cui egli  sembra ricalcare alcune modalità di riprese tipiche dei giochi di guerra FPS (first person shooter).

Ad avvalorare ciò, l’uso frequente di soggettive, o semi-soggettive dei militari intenti a far fuoco, o le numerose scene -caratteristiche proprio di questo genere di gioco- in cui il regista posiziona l’arma in diagonale nella parte bassa dell’inquadratura. Un espediente quest’ultimo tipico dei giochi FSP, ove lo scopo è ovviamente quello di creare un’interazione visiva tra lo schermo e il giocatore. Partendo da tali presupposti, è facile intuire il perché Clint Eastwood abbia usufruito di tali artifici compositivi: l’intento del regista è, in una prima analisi, quello di rendere lo spettatore partecipe alla guerra, liberandolo dalla sua condizione di spettatore passivo e immettendolo direttamente nello scenario di guerra, in una posizione che lo interpella e lo chiama in causa rendendolo attivo al limite delle possibilità offerta dallo schermo. Il passo successivo di un’operazione del genere è senz’altro il cinema 3d e le nuove forme ludiche di tipo interattivo(quelle offerte dal videogame appunto).

Flags of Our FatherA livello puramente formale quindi, il lavoro del regista si configura come una ripresa dei codici del linguaggio dei FPS game, rivolgendosi allo spettatore -nei momenti che rappresentano la guerra- instaurando un rapporto di interazione: tal interazione è spronata esclusivamente dall’impianto visivo ed esclude il coinvolgimento fisico, il quale è invece una prerogativa del videogame (gamepad). Per esemplificare tutto ciò basti mettere a confronto  le immagini qui riportate per capire quanto le modalità di ripresa del film di Eastwood siano debitrici al videogame FPS: le riprese in first person del videogame si configurano nel film come delle soggettive, le quali però, non appartenendo a nessuno(non vediamo quasi mai chi regge l’arma), elevano il ruolo dello spettatore a protagonista in prima persona (figure 2A e 2B); si tratta di “soggettive intercambiabili che rendono lo spazio una risultante dell’incrocio fra i diversi punti di vista dei personaggi in gioco”  e trovano le proprie origini nel videogame; anche i numerosi sguardi in macchina (figure 4A e 4B) da parte di terzi, che nel videogioco si rivolgono al character guidato dal player, nel film si rivolgono direttamente allo spettatore; laddove quindi, le modalità di ripresa del videogame vanno ad interpellare il giocatore, il film mettendo in scena i medesimi schemi compositivi attiva direttamente lo spettatore/giocatore rendendolo player del film e della guerra inscenata.  Come precedentemente affermato, il rapporto di influenza tra  cinema e videogame non è unilaterale; laddove il cinema va alla ricerca di espedienti visivi coinvolgenti propri dei videogiochi, è anche vero che sempre più spesso i videogame vanno verso una teatralizzazione propria del film, soffermandosi sempre di più sulla storia e costruendo sequenze sempre più realistiche che, svincolate dal gioco, si configurano come delle vere e proprie sequenze filmiche.

Di conseguenza il videogame esplora nuove possibilità, caratterizzando maggiormente i personaggi e gli scenari, proprio forte della fascinazione subita dal cinema. In tal senso basti confrontare un trailer di un film con i nuovi trailer dei videogame per capire quanto queste due arti visuali guardino l’una all’altra. Detto ciò, possiamo dedurre che, se il videogame tende verso il cinema cercando in esso la possibilità di rendere il gioco più realistico, il cinema da parte sua sembra che aspiri alle possibilità ludiche offerte dal videogame, come se volesse –paradossalmente- svincolarsi dagli intenti realistici per favorire una forma che miri invece ad un rapporto più interattivo con lo spettatore(vedi in tal senso il grande successo dei nuovi film in 3d).

Rapporto dialettico il film di Eastwood instauri con il videogame

Proprio partendo da tale considerazione cerchiamo di capire che tipo di rapporto dialettico il film di Eastwood instauri con il videogame. A prescindere dagli elementi prettamente formali, la scelta di Eastwood di far riferimento all’estetica del videogame va inquadrata all’interno del contesto e del tessuto narrativo del film stesso: il film infatti non è altro che il racconto di un falso storico, e va a distruggere uno dei simboli americani (la fotografia dei Marines che piantano la bandiera sulla collina di Iwo Jima). In tal caso, potremmo azzardare dicendo che la guerra rappresentata da Clint Eastwood non poteva essere del tutto realistica (come lo era invece la sequenza d’apertura di Salvate il soldato Ryan), in quanto lo stesso film si snoda attorno all’immagine falsa della fotografia. Un film dunque che si presenta come un gioco sull’immagine (quello della fotografia che in realtà un falso), e come l’immagine di un gioco(la rappresentazione dei soldati americani che piantano la seconda bandiera). Ovvero: Clint Eastwood si diverte a smontare la fotografia e con essa il mezzo fotografico e le sue capacità documentaristiche e mette in scena la “recita” dei militari che inscenano la seconda volta la conquista di Iwo Jima piantando una seconda bandiera.

Di conseguenza a tale considerazione viene messa in gioco la dicotomia finzione-realtà, sia in rapporto alle immagini sia a livello. La trama stessa si impernia sul rapporto tra finzione e realtà, e tale rapporto ovviamente trova riscontro nella nostra sequenza, dal momento in cui questa, forte della computer grafica che impera in maniera evidente, invece di adottare un approccio documentaristico(vedi Redacted), fa affidamento appunto all’iperrealismo ricreato dal computer, con un virtuosismo tale che va a discostarsi dalla realtà stessa, stravolgendola e rendendo invece la sequenza più vicina ad uno dei tanti momenti che si vivono giocando a Call of Duty e giochi affini. È come se il regista, partendo da una considerazione che va ad abbattere e contestare la veridicità del mezzo (sempre riferimento alla fotografia), avesse scelto anche formalmente un tipo di immagine che, scevra dal suo indice di riferimento, manifestasse la perdita del luogo reale e palesasse la sua inadeguatezza ad elevarsi a mezzo testimoniale.

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