Di fronte a Fallout – Stagione 2, l’impressione dominante è quella di un’opera che sceglie consapevolmente di complicarsi la vita. Dopo una prima stagione sorprendentemente compatta, capace di trasformare un universo videoludico vastissimo in un racconto televisivo coeso, la serie Prime Video decide di allargare l’orizzonte, moltiplicare i punti di vista e accettare il rischio della dispersione. È una scelta ambiziosa, non sempre risolta, ma coerente con la natura stessa del franchise: un mondo che vive di eccessi, derive e digressioni, più che di linearità rassicuranti.
La seconda stagione riparte immediatamente dagli eventi del finale precedente, catapultando lo spettatore in una narrazione che rifiuta la comfort zone del “viaggio dell’eroe” per abbracciare una coralità instabile. Lucy McClean non è più l’unico baricentro emotivo del racconto; piuttosto, diventa una delle molte traiettorie che attraversano il deserto post-atomico. Questa decentralizzazione è, insieme, il limite e il fascino della nuova stagione: Fallout sembra voler dimostrare di poter esistere anche senza un unico fulcro narrativo, affidandosi alla forza del suo mondo e dei suoi personaggi.
Fallout – Stagione 2 e il peso dell’espansione narrativa
Se la prima stagione funzionava come una mappa introduttiva, la seconda prova a essere un atlante. L’ingresso in scena di nuove fazioni, il ritorno di luoghi iconici come New Vegas e l’approfondimento delle dinamiche politiche del dopo-bomba ampliano la portata del racconto, ma ne diluiscono l’urgenza. La sensazione di “calo di prestazione” non deriva tanto da un calo qualitativo, quanto da una diversa gestione del tempo e delle priorità.
Lucy, interpretata con rinnovata consapevolezza da Ella Purnell, resta un personaggio magnetico, ma il suo arco appare meno definito. La sua evoluzione da ingenua abitante del Vault a guerriera del deserto continua, arricchendosi di sfumature più cupe e disilluse, ma il racconto le sottrae spazio per distribuirlo altrove. È una scelta che rispecchia il tema centrale della stagione: la perdita di centralità dell’individuo in un mondo che si riorganizza secondo nuove, inquietanti gerarchie.
Il montaggio alternato tra presente e passato, marchio di fabbrica della serie, qui risulta più sbilanciato. I flashback dedicati a Cooper Howard/The Ghoul e alla sua vita pre-apocalittica assumono un peso emotivo notevole, soprattutto grazie alla presenza di Justin Theroux nei panni dell’enigmatico Mr. House. Tuttavia, la frammentarietà di queste incursioni temporali rischia di spezzare il ritmo, più che arricchirlo, lasciando allo spettatore la percezione di un puzzle ancora incompleto.

Il Wasteland come personaggio: estetica, creature e immaginario
Nonostante le incertezze strutturali, Fallout continua a brillare quando si affida al suo elemento più potente: il mondo. Il Wasteland non è mai stato così vivo, stratificato, disturbante. Ogni nuova location racconta una storia fatta di rovine, adattamenti forzati e ironia macabra, mantenendo intatto quel tono di dark comedy che distingue la saga da qualsiasi altro racconto post-apocalittico.
Le creature, grottesche e affascinanti, sono utilizzate con intelligenza, mai come semplice attrazione visiva, ma come estensione delle paure e delle contraddizioni di questo universo. La regia insiste su dettagli materici, su rifugi improvvisati e accampamenti che fondono iconografie storiche e immaginari pulp, restituendo un senso di decadenza spettacolare ma mai gratuita.
La scelta di una distribuzione settimanale degli episodi, rispetto al binge della prima stagione, giova a questa densità visiva e concettuale. Ogni puntata ha il tempo di sedimentare, di lasciare emergere connessioni e simboli, permettendo allo spettatore di esplorare il Wasteland con uno sguardo più attento, quasi archeologico. In questo senso, la serie conferma di essere una delle migliori trasposizioni videoludiche proprio perché non tenta di “semplificare” il materiale di partenza, ma lo abita fino in fondo.
Personaggi, coppie improbabili e memoria del passato
Il cuore emotivo di Fallout – Stagione 2 resta nei suoi personaggi e nelle relazioni improbabili che si formano lungo il cammino. La dinamica tra Lucy e The Ghoul continua a essere uno dei motori più efficaci della serie: l’ottimismo ferito di lei e il cinismo disilluso di lui si scontrano e si completano, creando un equilibrio narrativo che regge anche quando la trama sembra perdersi.
Walton Goggins, ancora una volta, domina la scena. Il suo Cooper Howard è un personaggio che vive di stratificazioni, e la stagione insiste sul trauma irrisolto della scoperta del ruolo della moglie nella fine del mondo. Anche in pochi frammenti, Goggins riesce a condensare una gamma emotiva complessa, trasformando il Ghoul in una figura tragica più che semplicemente iconica.

Altrove, il rapporto tra Maximus e Thaddeus introduce una nota di umorismo dissonante, giocando sul contrasto tra l’insicurezza del primo e l’entusiasmo ingenuo del secondo. Non tutte le sottotrame trovano una risoluzione soddisfacente, ma contribuiscono a quell’idea di mondo in continuo movimento, dove non ogni storia è destinata a chiudersi in modo ordinato.
Fallout – Stagione 2 è una stagione imperfetta, a tratti dispersiva, ma profondamente coerente con il suo immaginario. Non possiede la compattezza della prima, ma ne conserva l’anima: un equilibrio delicato tra spettacolo e malinconia, tra satira e tragedia. È una serie che accetta il rischio di smarrirsi per continuare a esplorare, ricordandoci che la fine del mondo, per essere raccontata davvero, non può mai essere del tutto sotto controllo.
Fallout - Stagione 2
Sommario
Ampliare i punti di vista è una sfida coraggiosa per una serie che cerca di imitare la natura stessa del gioco da cui è tratta.
