Task, recensione della miniserie con Mark Ruffalo

I primi due episodi dello show sono disponibili dal 12 ottobre, seguiti da un episodio a settimana ogni domenica.

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Con Task, miniserie disponibile su NOW e Sky dal 12 ottobre con i primi due episodi (gli altri seguiranno settimanalmente), Brad Ingelsby torna a indagare il suo territorio narrativo d’elezione: la provincia di Philadelphia e i segreti morali che si tramandano di generazione in generazione. Dopo il trionfo di Omicidio a Easttown, che era valso a Kate Winslet un Emmy e consacrato Ingelsby come uno degli autori più sensibili e rigorosi della serialità americana, il creatore sceglie di spostare leggermente il fuoco. Task non è un poliziesco con un mistero da risolvere, né il ritratto isolato di un’anima ferita. È piuttosto una caccia a due, un intreccio di destini che si sfiorano e si riflettono, sospeso tra la legge e il crimine, la colpa e la compassione.

La storia si muove intorno a due figure speculari: Tom Brandis (Mark Ruffalo), agente dell’FBI recentemente vedovo ed ex sacerdote, e Robbie (Tom Pelphrey), netturbino che di notte guida una banda di rapinatori. Entrambi uomini segnati dalla perdita, entrambi prigionieri di un lutto che si trasforma in motore d’azione. L’uno tenta di ricostruire la propria vita tra l’alcol e i silenzi di una figlia adolescente; l’altro cerca un’impossibile redenzione nel furto e nella violenza, convinto di poter colpire solo i “cattivi”. Tra loro, un filo invisibile di dolore e responsabilità, destinato a tendersi fino a spezzarsi.

Task è una caccia tra le ombre della provincia

Il titolo della serie deriva dal gruppo investigativo — la “task force” — che Tom è chiamato a guidare dopo anni di incarichi marginali. È un ritorno in prima linea che gli offre una via di fuga dal proprio vuoto personale, ma anche un terreno minato in cui i suoi demoni interiori tornano a manifestarsi. La squadra, composta da giovani agenti con fragilità ben riconoscibili, rappresenta un microcosmo di anime smarrite: Lizzie (Alison Oliver), trooper brillante ma incline al panico; Anthony (Fabien Frankel), detective cattolico e tormentato; e Aleah (Thuso Mbedu), sopravvissuta alla violenza domestica. A sovrintendere tutto, la fredda e incisiva Kathleen di Martha Plimpton, che restituisce con una sola alzata di sopracciglio la durezza del mestiere e la fatica dell’empatia.

Sul versante opposto, Robbie condivide la scena con il fedele Cliff (Raul Castillo), il più giovane Peaches (Owen Teague) e la nipote Maeve (Emilia Jones, già in CODA), con cui tenta di ricomporre una famiglia sfilacciata. La loro è una piccola comunità di disperati che si arrangiano ai margini della legalità, rubando ai criminali per sopravvivere, mentre il mondo intorno implode. L’errore fatale — una rapina andata terribilmente storta — innesca una spirale di violenza che mette in collisione due universi speculari: quello dei tutori della legge e quello dei suoi trasgressori. Entrambi, come suggerisce Ingelsby, mossi dalle stesse forze — la perdita, l’amore, il desiderio di proteggere chi resta.

Diretta con mano ferma da Jeremiah Zagar e Salli Richardson-Whitfield, Task alterna momenti di pura tensione a improvvisi squarci di intimità domestica. Le scene d’azione — inseguimenti, sparatorie, irruzioni — sono costruite con precisione quasi chirurgica, ma non diventano mai puro esercizio di stile: ogni gesto, ogni sparo ha un peso emotivo, un riflesso nel dolore dei personaggi. È una serie che rifiuta la spettacolarità gratuita e preferisce scavare nei silenzi, nei corridoi vuoti, nei respiri trattenuti.

Uomini imperfetti, eredità morali

Se Omicidio a Easttown era una meditazione sul lutto materno e sulla comunità ferita, Task (qui il trailer) sposta il focus sulla paternità e sulle eredità morali. Tutti i protagonisti — poliziotti, criminali, genitori o figli — sono custodi di qualcuno e, al tempo stesso, incapaci di proteggerlo davvero. Tom vive con la figlia Emily (Silvia Dionicio) un rapporto incrinato dalla doppia assenza: quella della moglie scomparsa e quella del figlio Ethan, internato in un istituto. Robbie, invece, cerca di essere padre e zio insieme, in una casa in cui la morte e l’abbandono hanno lasciato vuoti impossibili da colmare. Persino il biker Perry (Jamie McShane), leader spietato della gang Dark Hearts, agisce come un padre putativo, pronto a tutto pur di salvare il giovane Jayson (Sam Keeley) dalle conseguenze delle proprie scelte.

In questo intreccio di genitori mancati e figli smarriti, Ingelsby trova la sua consueta grandezza: la capacità di raccontare il peccato come una malattia ereditaria, un fardello che si trasmette più per amore che per odio. Nessuno è completamente innocente, ma tutti cercano disperatamente una via per non trasmettere il proprio dolore. È qui che la scrittura, pur mantenendo la cornice del crime, tocca corde quasi teologiche. Tom, ex sacerdote, è l’incarnazione di una fede messa alla prova: deve imparare a perdonare — se stesso, il figlio, forse anche il suo nemico. Ruffalo interpreta questa contraddizione con una misura sorprendente: lo sguardo appesantito, la voce bassa, la malinconia di chi vive in equilibrio tra redenzione e resa. È una delle sue prove più intense e controllate, un ritratto di dolore trattenuto che restituisce al personaggio un’umanità autentica.

Accanto a lui, Pelphrey regala un’altra interpretazione magnetica, dopo il successo di Ozark. Il suo Robbie è un uomo che affonda nel fango cercando di salvarsi, consapevole che ogni gesto di ribellione è anche un passo verso la rovina. Il confronto tra i due — il “buono” e il “flawed man” — diventa il cuore pulsante della serie: due poli di un’unica tragedia morale, due facce dello stesso desiderio di espiazione. A chiudere il triangolo, il Perry di McShane, glaciale e calcolatore, un male che non ha bisogno di urlare per imporsi.

Un dramma umano sotto il peso del peccato

Pur senza raggiungere la coesione narrativa di Omicidio a Easttown, Task si afferma come un dramma corale di grande potenza emotiva. Qualche passaggio della seconda parte indulge in twist un po’ forzati, e non tutti i personaggi ricevono lo spazio che meritano — in particolare Maeve, interessante contrappunto emotivo di Robbie, che scompare man mano che l’azione prende il sopravvento. Ma la forza della serie resta nella sua coralità, nella verità degli interpreti e nella coerenza di un mondo narrativo che Ingelsby conosce alla perfezione.

Task non offre consolazione, né un mistero da risolvere: preferisce interrogarsi su quanto dolore può sopportare un individuo prima di cedere, e su quanto amore resta possibile in un universo governato dal rimorso. È, in fondo, la storia di persone che lasciano che le emozioni — più che la logica o la legge — guidino ogni scelta, anche la più distruttiva. E in questo, ancora una volta, Brad Ingelsby dimostra di saper raccontare la provincia americana non come sfondo, ma come stato dell’anima: un luogo in cui il peccato non si estingue mai, ma può essere, almeno per un attimo, compreso.

Task
3.5

Sommario

Ingelsby trova la sua consueta grandezza: la capacità di raccontare il peccato come una malattia ereditaria, un fardello che si trasmette più per amore che per odio.

Chiara Guida
Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice e Direttore Responsabile di Cinefilos.it dal 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.

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