Carlo Mazzacurati: la provincia come modo di stare al mondo

La giusta distanza

Le province sono una specie di unico luogo. La provincia è un modo di stare al mondo”: era lui stesso a spiegare così il suo concetto di provincia, che si estendeva non solo oltre i confini del Nord-est, ma oltre quelli italiani. Più che un luogo fisico – “un pezzo d’Italia che adesso viene volgarmente chiamato Nord-est, ma una volta si chiamava solo Veneto, e mi sembrava più bello” – la provincia esplorata da Carlo Mazzacurati, è un punto di vista, una prospettiva dalla quale osservare le cose, affinché appaiano più chiare, un po’ come succedeva al personaggio di Willy ne La lingua del santo quando si trovava immerso nella laguna veneta, è “il bisogno di stare davanti al mio mondo, vederlo cambiare e capire come evolve”, diceva il regista, un modo per aprirsi verso l’esterno, per scorgere, forse meglio e prima che altrove, i segnali di novità, di cambiamento, le contraddizioni e gli elementi vitali. Una provincia non statica, ma in movimento, ricca di umanità e di storie. Storie di individui “persi, disorientati, senza memoria”, “i più spiantati, quelli che sembrano traballare di fronte alla modernità e alla sua offerta”, come li descriveva. Uomini e donne in cerca di riscatto, abbagliati da un miraggio di progresso e ricchezza che però non sanno cogliere, o si rivela effimero, mentre in primo piano restano i legami umani e affettivi. In più, una straordinaria capacità di spaziare tra i generi: dal dramma, alla commedia amara, alla vera e propria tragicommedia dai toni farseschi, non tralasciando il cinema di genere.

 

Corpulento nel fisico, dal carattere riservato ma affabile, ironico e divertito, Carlo Mazzacurati nasce a Padova nel ’56. Segue la passione per il cinema dopo il liceo, tentando per tre volte di entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia, senza successo. Si dedica però con passione all’attività nel cineclub Cinema Uno della sua città e s’iscrive al DAMS di Bologna. Grazie a un’eredità, realizza il primo tentativo dietro la macchina da presa, Vagabondi (1979), premiato, ma che non esce in sala. Nel frattempo, si sposta a Roma, dove lavora come autore tv e completa quello che è di fatto considerato il suo primo film: Notte italiana (1987), nonché il primo di Nanni Moretti e Angelo Barbagallo da produttori, con la Sacher Film. Sfrutta le doti di Marco Messeri, attore protagonista nei panni di un avvocato, per costruire attorno a lui un dramma con venature noir, in cui la provincia esemplifica i mali italiani, allontanandosi dai cliché. Nastro d’Argento per il miglior esordio.

Due anni dopo, adatta un romanzo di Goffredo Parise, ambientato a Vicenza nel ‘39: Il prete bello, dove ritrova Roberto Citran, già nel precedente lavoro. I veri protagonisti della pellicola, più che Don Gastone (Citran), sono un gruppo di ragazzi sbandati, seguiti nel loro percorso di formazione, nel sedimentarsi delle amicizie. Spiccata la capacità d’osservazione del regista, che si concentra su un’umanità ai margini, sul desiderio di arricchimento, sui furti grandi e piccoli – leitmotiv di molti suoi lavori – che spesso non sono un’occasione di riscatto o miglioramento.

Come sceneggiatore, lavora a Marrakech Express di Gabriele Salvatores (premio Solinas, 1989) e collabora con Daniele Luchetti per Domani accadrà. Parteciperà, invece, da attore ad alcuni film di Nanni Moretti (Palombella rossa, Caro diario, Il caimano).

Da regista, racconta poi Roma, dove era arrivato alcuni anni prima: coacervo di divergenze, terreno di incontro-scontro tra individui, in Un’altra vita (1992), giocando sull’opposizione tra un giovane dentista, Saverio (Silvio Orlando, con cui l’autore inaugura una lunga collaborazione), e un malavitoso romano, Mauro (Claudio Amendola): mondi opposti venuti a contatto a causa di una giovane ragazza russa. Mazzacurati volge così per la prima volta uno sguardo curioso e arguto verso l’Est europeo, cui spesso tornerà. Grolla d’oro sia al regista, che a Claudio Amendola.

Il rapporto del mondo occidentale con l’Est e l’incontro tra la realtà capitalistica e quella post-comunista sono infatti al centro de Il toro; il tutto però, filtra attraverso la vicenda di due uomini, Loris (Roberto Citran) e Franco (Diego Abatantuono), due “poveri”, come si dice nel film, allevatori alle prese con quella che potrebbe essere la loro occasione della vita. Due ottime interpretazioni che accompagnano il regista verso il Leone d’Argento a Venezia (Coppa Volpi per Citran).

Nel ’96, Carlo Mazzacurati riparte dall’Est con Vesna va veloce: dramma di una giovane cecoslovacca che arriva a Trieste in gita e sceglie di restare in Italia, facendo la prostituta per mantenersi. Speranze e sogni di libertà destinati ad infrangersi. Nel cast, oltre al ritorno di Silvio Orlando, Antonio Albanese, che mostra qui il suo talento drammatico.

Dopo L’estate di Davide (1998) troviamo uno spartiacque nella carriera del regista padovano. Se infatti finora per le sue storie aveva scelto un tono drammatico, a volte cupo, altre malinconico, ora inizia a trovare spazio un’altra chiave di lettura della realtà, quella ironica e leggera. Chiave che si andrà rafforzando, declinandosi di volta in volta dal sarcastico, al francamente comico, grottesco, surreale. Primo e più riuscito esempio di questo nuovo corso, se non addirittura il più compiuto esempio dell’intera poetica del regista, è La lingua del santo (2000). Della galleria di perdenti creata da Mazzacurati, infatti, Willy (Fabrizio Bentivoglio) e Antonio (Antonio Albanese), ladri per caso e per bisogno, paiono i più efficaci, i più memorabili. Nella ricca e laboriosa Padova, “i protagonisti sono gli unici due che non ce l’hanno fatta”. Nel film, l’ironia svela il dramma più del dramma stesso, unendo divertimento e sguardo malinconico. I luoghi cari al regista sono anch’essi protagonisti del film e specchio dell’interiorità dei personaggi. Quel delta del Po che, affermava Mazzacurati a proposito di un altro suo lavoro, “per me è il sud del nord. È diventato anche un po’ un paesaggio fantastico. È soprattutto una terra senza confini, nuda, libera, dove è possibile fare una riflessione”. E anche qui, la laguna è luogo di libertà e d’espressione compiuta di sé, luogo di riflessione e chiarezza.

Parte in quegli stessi anni il progetto Ritratti, dedicato agli intellettuali veneti Mario Rigoni Stern, Andrea Zanzotto e Luigi Meneghello; mentre, anni dopo, saranno sei i ritratti di veneziani in Sei Venezia (2010). Tra i documentari, anche Medici con l’Africa (2012), sull’esperienza dell’associazione di volontariato Cuamm in Mozambico.

Tornando ai film di finzione, dopo un remake di Comencini (A cavallo della tigre, 2002) e l’adattamento di un romanzo di Cassola (L’amore ritrovato, 2004), entrambi esperimenti non troppo riusciti – uno con Bentivoglio che ricorda un Giannini d’altri tempi, e l’altro un viaggio sentimentale dai toni intimisti e rarefatti con Stefano Accorsi e Maya Sansa – il 2007 è l’anno del ritorno a temi e ambientazioni più congeniali al regista padovano, con una nuova incursione nel noir e un ideale collegamento agli esordi di Notte italiana. La giusta distanza fotografa quella realtà e i suoi cambiamenti, ma anche quelli dell’Italia, nell’arco di vent’anni. Quel lembo di pianura padana, nelle parole del regista, “è insieme espressione di una profonda arcaicità, ma anche di modernità. Il film è soprattutto questo: una registrazione dello scontro drammatico fra arcaicità e modernità” Centrale anche il tema dell’incontro tra culture e dell’integrazione, con l’obiettivo di bandire i cliché. Protagonista Valentina Lodovini (Mara), bella e giovane insegnante, il cui arrivo in un piccolo centro ne sconvolge la vita.

Tre anni dopo, il ritorno alla commedia. Con La passione, in cui ritrova Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Marco Messeri, Carlo Mazzacurati tratteggia, con registro decisamente comico-grottesco, le vicende di una piccola comunità alle prese con una Sacra Rappresentazione. Coinvolto, suo malgrado, anche un regista in crisi creativa che si ritrova a prendere le redini della situazione (Silvio Orlando). Una passione che è, prima, rappresentazione-farsa, poi, messinscena del calvario reale di un individuo (Ramiro-Battiston) in un caleidoscopio di storie strampalate.

L’ultimo film del regista padovano è La sedia della felicità, inno alla leggerezza e alla libertà stilistica anche più del precedente, ma capace di controllarne meglio i risvolti, tra registro favolistico e riflessione sulla realtà, protagonisti Valerio Mastandrea e Isabella Ragonese, comuni disgraziati al tempo della crisi, attorniati da un ricchissimo cast. Il film è presentato in anteprima al Festival del Film di Torino 2013; lì Mazzacurati riceve il Gran Premio Torino alla carriera.

Il regista scompare prematuramente, all’età di 57 anni, il 22 gennaio 2014 a causa di una grave malattia. Così si era espresso sul suo ultimo lavoro, proprio a Torino: “Corrisponde a una parte di me, quella dello spettatore: come spettatore preferisco vedere film divertenti. Uso il cinema come elemento consolatorio. Così ho pensato di aggiungere a quei film che continuo a guardare per consolarmi, un po’ ambiziosamente, anche un film che avevo fatto io”. Dal 24 aprile nelle sale.

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