Misterioso, impenetrabile, magico, rivoluzionario, anarchico. Sono solo alcuni degli aggettivi con cui è stato definito. Schivo nel carattere, rigoroso e perfezionista nel lavoro, mescolava lo studio minuzioso del personaggio al talento geniale che aveva la fortuna di possedere, e che gli consentiva di calarsi in ruoli anche opposti con la stessa impressionante aderenza. I maggiori registi italiani l’hanno voluto con sé e tutti ne hanno riconosciuto le straordinarie doti d’interprete, il suo darsi senza riserve ai personaggi. Francesco Rosi – con cui ha avuto una delle più feconde collaborazioni, accanto a quella con Elio Petri – lo ha definito “uno dei più grandi attori del cinema mondiale”, Welles e Bergman erano della stessa opinione. Vittorio Taviani ne ha lodato la “forza feroce, la fantasia, l’intelligenza, l’intuito d’attore” messi al servizio dei suoi ruoli, “la pervicacia e la concentrazione” nello studio del personaggio, “sotto la quale si nascondeva veramente la genialità di un talento”; Giorgio Albertazzi lo ha definito “un grande attore, ma non di schemi espressivi, bensì di grande improvvisazione”.
Ancor più efficacemente ha sintetizzato Giuliano Montaldo: “vedendo Gian Maria Volonté, capirete cosa vuol dire il mestiere d’attore”. Di fronte alle sue interpretazioni si scopre, infatti, l’enorme potenzialità, la forza dirompente che il cinema può avere. Esso diventa materia, sostanza che scava nel profondo. Si può dire che Volonté abbia pienamente realizzato ciò di cui era convinto: che in un film fondamentale non fosse solo il ruolo del regista – che concepisce l’idea generale del progetto, ne decide il taglio e dà la sua inconfondibile impronta dirigendolo – ma anche, altrettanto, il contributo originale che l’attore porta col suo particolare linguaggio, con la sua interpretazione.
Inoltre, ha sempre scelto i suoi lavori in base a una rigorosa concezione del cinema. Semplificando, si può dire sia stato per più di un ventennio il volto del cinema d’impegno civile e politico italiano, sebbene lui non amasse quest’espressione: “Ogni film, ogni spettacolo è generalmente politico, il cinema apolitico è un’invenzione dei cattivi giornalisti”. Ma era certo molto più di questo, più dell’attore engagé, lettore di Sartre e Camus, ben oltre l’uomo di sinistra che mette il mestiere al servizio degli ideali politici, era piuttosto un fautore del pensiero critico, libero da vincoli, convinto che l’arte potesse cambiare davvero la vita. A vent’anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 6 dicembre del 1994, se guardiamo al paese, molti dei mali che Volonté ha contribuito a denunciare, molti dei meccanismi che ha contribuito a indagare, alla ricerca di “un brandello di verità”, sono ancora radicati e vivi, ma la sua lezione artistica e umana resta un punto di riferimento irrinunciabile.
E dire che i suoi primi passi non erano stati facili. Nasce a Milano nel 1933, da madre benestante, mentre il padre è un milite fascista che, arrestato, muore in carcere, lasciando la famiglia in difficoltà economiche. Gian Maria cresce a Torino e presto lascia gli studi per guadagnarsi da vivere. Fa molti lavori, vivendo anche d’espedienti, finché non si unisce a una compagnia teatrale itinerante come fac totum. Si appassiona alla lettura e alla recitazione, arrivando a Roma nel 1954 per frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica, dove si fa subito notare per il suo talento non comune. Esordisce come attore in uno sceneggiato televisivo nel 1957 e sarà proprio il lavoro per la televisione che gli darà la prima notorietà. Recita in trasposizioni tratte da opere teatrali di rilievo, come Fedra di Racine, o L’idiota di Dostoevskij (1959), dove è accanto a Giorgio Albertazzi, che lo ha voluto dopo averlo visto recitare Beckett al Teatro Stabile di Trieste.
Nel 1960 interpreta Romeo in teatro, accanto all’attrice Carla Gravina. Tra i due inizia una relazione da cui nascerà la figlia Giovanna. È questo l’anno del suo esordio al cinema in Sotto dieci bandiere di Duilio Coletti. L’anno seguente, è nel cast di A cavallo della tigre di Luigi Comencini, accanto a Nino Manfredi. Mentre, nel 1962 è protagonista dell’esordio cinematografico dei fratelli Taviani, Un uomo da bruciare, sulla vicenda del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia. Già qui vediamo come Volonté dia il meglio di sé nel tratteggiare personaggi eroici, in qualche misura rivoluzionari, bastian contrari disposti a pagare a caro prezzo le loro idee. Ma interpreterà anche, al contrario, mafiosi, banditi, o uomini di potere che si servono della loro posizione e la sfruttano con logiche personalistiche, essendo spesso, a loro volta, ingranaggi di un meccanismo di potere e di controllo più vasto.
Prima di dedicarsi al cosiddetto cinema d’impegno però, dà vita a due pellicole che contribuiscono enormemente alla sua fama, anche internazionale. È infatti il 1964 quando Sergio Leone lo vuole per il suo spaghetti-western: Volonté è Ramón in Per un pugno di dollari e incarna così bene il ruolo dell’antagonista di un Clint Eastwood anche lui agli esordi, da entrare di diritto nel cast del successivo Per qualche dollaro in più, dimostrando doti istrioniche nel caratterizzare il bandito El Indio. È anche in Quién sabe? (1966) di Damiano Damiani, con Lou Castel. Mentre nello stesso anno non disdegna la commedia monicelliana, con un ruolo ne L’armata Brancaleone.
Il 1967 lo vede appunto cambiare genere e dar vita a un’importante collaborazione artistica: quella con Elio Petri: Volonté è infatti scelto per interpretare l’introverso professor Laurana, accanto a Gabriele Ferzetti e Irene Papas, in A ciascuno il suo, è la prima trasposizione cinematografica di un romanzo di Sciascia cui Volonté partecipa, ne seguiranno molte altre. E arrivano anche i riconoscimenti: Nastro d’Argento e Globo d’oro per la sua interpretazione. Nel 1968 interpreta il rapinatore Cavallero – le gesta della sua banda riempiono le cronache milanesi di quegli anni – in Banditi a Milano di Carlo Lizzani, confermando la sua duttilità e la forte presenza scenica.

Nel ‘70 inizia anche il lavoro con Francesco Rosi, che lo vuole per il ruolo del tenente Ottolenghi in Uomini contro. Film fortemente antimilitarista, che evidenzia l’insensatezza della guerra, la Prima Guerra Mondiale, e punta il dito contro le alte gerarchie. La pellicola è osteggiata, ma resta coraggiosa e intensa. Volonté vestirà poi per Rosi i panni del fondatore dell’Eni, parlamentare e uomo di stato Enrico Mattei ne Il caso Mattei (1972) – guadagnandosi la Menzione speciale a Cannes – ma sarà un altrettanto credibile Lucky Luciano nell’omonimo lavoro del 1973. Due italiani diversissimi, ancora una volta resi con straordinaria mimesi. Sei anni dopo, sempre diretto da Rosi, sceglierà un registro misurato per dare spessore alla figura di Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli.
Due pellicole lo vedono poi lavorare con un altro grande regista del nostro cinema, Giuliano Montaldo: Sacco e Vanzetti (1971) – Volonté aveva interpretato in teatro il personaggio di Nicola Sacco, mentre qui è Bartolomeo Vanzetti – e uno scomodo Giordano Bruno (1973). L’interpretazione di Bart è anch’essa tra le più note della carriera di Volonté. Il film ottiene riconoscimenti sia in Italia che all’estero.
Ma agli anni Settanta appartiene anche un altro caposaldo del cinema d’impegno, che vede un Volonté indimenticabile, diretto stavolta da Marco Bellocchio: Sbatti il mostro in prima pagina (1972), denuncia del potere mistificatorio dell’informazione, del suo uso strumentale da parte delle classi dirigenti, in cui l’attore è il caporedattore senza scrupoli di un quotidiano milanese.
Negli anni Ottanta, Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara e L’opera al nero (1988) di André Delvaux sono altre due perle di una carriera internazionale di ampio respiro. Col primo, Volonté è premiato al Festival di Berlino, per essersi immerso con meticolosa aderenza nei panni del presidente della Democrazia Cristiana; mentre col secondo ottiene il Nastro d’Argento. Nel 1990 vuole essere in una nuova trasposizione da Sciascia, forse una delle migliori, che riflette sui meccanismi del sistema giudiziario: Porte Aperte di Gianni Amelio, in cui si conferma ancora ai massimi livelli. È premiato col David di Donatello, assieme ad Amelio, e riceve il Globo d’Oro, mentre il film vince lo European Film Award ed è candidato all’Oscar.


