Diretto da Dominic Sena e interpretato da Nicolas Cage e Ron Perlman, L’ultimo dei Templari (Season of the Witch, 2011) è un film che fonde elementi di avventura medievale e horror sovrannaturale con una riflessione più ampia sulla fede e sulla colpa. Ambientato in un’Europa devastata dalla peste, segue due cavalieri crociati, Behmen e Felson, che tornano a casa dopo anni di guerre combattute in nome di Dio.
Ma il loro ritorno è segnato dal disincanto e dal senso di colpa per le atrocità commesse durante le Crociate. Incaricati di scortare una giovane donna accusata di stregoneria fino a un monastero dove i monaci dovranno esorcizzarla, i due uomini intraprendono un viaggio che diventa una parabola morale sulla redenzione e sulla perdita della fede. Il film, sotto la superficie avventurosa, è una riflessione sul male umano, sul fanatismo e sulla possibilità di ritrovare un senso di spiritualità dopo averne abusato.
La rivelazione di Anna e la vera natura del male
Quando Behmen e Felson raggiungono finalmente il monastero e consegnano la giovane Anna (interpretata da Claire Foy), la narrazione ribalta le sue premesse. Ciò che sembrava una missione per liberare il mondo da un male terreno si rivela una lotta contro un male ancestrale. Anna non è infatti una strega, ma una vittima posseduta da un demone millenario che ha seminato morte e pestilenza per secoli. Questa rivelazione trasforma radicalmente la prospettiva del film: la superstizione e la paura che avevano guidato le azioni dei cavalieri si scontrano con una realtà più profonda, in cui il male non è prodotto dall’eresia o dal peccato, ma dalla corruzione spirituale dell’uomo. Il monastero, luogo simbolo della purezza e della preghiera, si tramuta nel teatro dell’ultima battaglia tra fede e oscurità, mostrando come persino i luoghi sacri possano diventare terreno fertile per la perdizione. Il demone, una figura che rappresenta il potere della menzogna e della manipolazione, svela il lato più oscuro dell’animo umano: la paura del diverso e il desiderio di dominio mascherati da zelo religioso.
Il significato simbolico della battaglia finale e della morte di Behmen
Lo scontro finale tra Behmen e il demone è costruito come una lotta di espiazione più che di sopravvivenza. Il cavaliere, che aveva abbandonato la fede perché disgustato dalla violenza della Chiesa, si ritrova di fronte a una scelta estrema: sacrificare sé stesso per salvare Anna e, con lei, il mondo. In questa sequenza, l’azione assume un valore metaforico. Ogni colpo di spada diventa un atto di purificazione, un tentativo di liberarsi dalla colpa accumulata nel corso di anni di guerre “sante”. Quando Behmen riesce a distruggere la creatura demoniaca, non compie un gesto eroico, ma un atto di restituzione morale. La sua morte è una forma di redenzione, un ritorno a una fede autentica che non si fonda sull’obbedienza cieca, ma sulla compassione e sul sacrificio personale. Felson, testimone e custode del suo sacrificio, sopravvive come rappresentante della memoria di quella fede rinnovata, che non appartiene più alla Chiesa istituzionale ma all’uomo libero e consapevole.
Il male come eredità dell’uomo e non del demonio
Il finale di L’ultimo dei Templari rifiuta ogni visione manichea. Dopo la sconfitta del demone, non c’è una vera vittoria: il male non scompare, ma si trasforma. La peste, la guerra, la superstizione restano come eredità del mondo che i protagonisti hanno contribuito a corrompere. Il film suggerisce che la vera origine del male non risiede nel soprannaturale, ma nella natura stessa dell’uomo, nella sua incapacità di distinguere la fede dalla violenza, la giustizia dal fanatismo. In questo senso, il demone diventa il riflesso delle colpe umane: un simbolo dell’ipocrisia religiosa e della sete di controllo che, attraverso i secoli, ha giustificato guerre, persecuzioni e roghi. La morte di Behmen segna una rinascita spirituale, ma non una salvezza collettiva: il mondo rimane contaminato, e i sopravvissuti si aggirano tra le rovine del monastero come testimoni di un equilibrio fragile. La fede, ora, è un cammino solitario fatto di consapevolezza, non di dogmi.
Il lascito del film e la sua rilettura nel percorso di Nicolas Cage
Nel contesto della filmografia di Nicolas Cage, L’ultimo dei Templari assume un significato particolare. Uscito in un periodo in cui l’attore alternava ruoli spettacolari a interpretazioni più introspettive, il film si colloca come un ponte tra il cinema d’intrattenimento e la ricerca di un senso più esistenziale. Behmen è un personaggio tipicamente cageano: un uomo in bilico tra colpa e redenzione, tra follia e spiritualità. Attraverso di lui, il film si trasforma in una riflessione sul potere della fede come esperienza individuale e non come imposizione collettiva. Nonostante le sue imperfezioni narrative e visive, L’ultimo dei Templari trova nel suo finale una forza simbolica che lo rende più interessante di quanto appaia in superficie. La morte del protagonista, immersa in un’atmosfera di silenzio e luce, non è una sconfitta, ma una dichiarazione di speranza: il male può essere contenuto solo quando viene riconosciuto come parte di noi stessi. È questa la lezione ultima del film — che la vera vittoria non è nella guerra contro il demone, ma nella riconciliazione dell’uomo con la propria coscienza.