anch'io film 2023

Prima di Anche io, il cinema americano ci ha abituato da decenni alla visione di film che mettono in scena le meccaniche del giornalismo investigativo. Gli esempi maggiormente valevoli di questo sottogenere sono titoli blasonati quali Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, Zodiac di David Fincher e Il caso Spotlight di Tom McCarthy, vincitore dell’Oscar come miglior film nel 2015.

 

Anche io, tutto comincia con Harvey Weinstein

Incentrato sull’inchiesta che le giornaliste del New York Times Jodi Kantor e Megan Twohey portarono avanti riguardo gli abusi sessuali perpetrati da Harvey Weinstein, She Said appartiene senza dubbio a questa categoria, ma in maniera altrettanto evidente l’accostamento ai titoli prima citati finisce qui. Diretto da Maria Schrader, il film non possiede infatti gli elementi che hanno reso memorabili tali lungometraggi del passato, primo tra tutti l’equilibrio tra necessità di intrattenimento e ricerca di una veridicità nell’esposizione del racconto.

Anche io infatti cerca con molti, forse troppi accorgimenti, di catturare l’empatia dello spettatore, scivolando suo malgrado nel melodramma quando una messa in scena più ‘asciutta” avrebbe probabilmente funzionato meglio allo scopo. I primi dieci, quindici minuti del film sono sfortunatamente la parte più debole dell’operazione, quella che a conti fatti setta il tono della stessa: in particolar modo un uso invasivo della musica intesa a sottolineare la tensione a cui vanno incontro le due protagoniste risulta fortemente controproducente, arrivando a creare un senso di confusione sia nel tono scelto per la vicenda che nel genere, in quanto lo scorse sembra forse più consono al thriller.

Cosa che Anche io proprio non è, né vuole essere. Una volta superato un inizio non equilibrato il film oggettivamente migliora, assestandosi su una sceneggiatura discretamente strutturata seppur non esente da una certa approssimazione nella delineazione dei personaggi. Per rendere infatti la Kantor e la Twohey maggiormente bidimensionali vengono aggiunti alla storia piccoli quadri familiari che però non riescono realmente nell’intento, aggiungendo alla vicenda principale sottotrame che appesantiscono una narrazione la quale avrebbe dovuto durare meno delle quasi due ore e un quarto finali.

Allo stesso modo le due figure principali in più di una scena non riescono a sfuggire dalla trappola dello stereotipo: se infatti il personaggio interpretato da Zoe Kazan rimane sempre la giornalista gentile e alle prime armi, quello di Carey Mulligan possiede invece lo charme e la durezza del reporter con esperienza. Almeno in un paio di casi le due figure diventano caratterizzazione invece che personalità delineata con acutezza, e questo nuoce alla loro credibilità: perché ad esempio la Twohey deve costantemente scoppiare in lacrime ogni volta che riceve una buona notizia?

Una sottolineatura non necessaria che continua a trascinare inutilmente il tono verso il melodrammatico. Figure che non aiutano di certo la Kazan e la Mulligan ad esprimere il meglio delle loro qualità di attrici, Ma se la seconda risulta comunque efficace in virtù della sua presenza scenica sempre carismatica, la Kazan non riesce a dotare il suo ruolo di spessore, apprendo in più di un’occasione un pulcino fuor d’acqua. In ruoli di contorno anche attori consumati come Patricia Clarkson e André Braugher non brillano.

Anche io meritava più lucidità

Pensando al tema trattato e alla sua importanza Anche io avrebbe dovuto essere un film costruito e realizzato con assai maggiore lucidità, attraverso scelte soprattutto di regia ben definite. E questo riporta necessariamente al lavoro della Schrader, cineasta che tende sempre in maniera ostentata verso la ricerca di empatia attraverso musiche, flashback e momenti ad effetto non particolarmente richiesti. E almeno una sequenza, quella in cui Harvey Weinstein si presenta nella sede del New York Times con il suo entourage per difendersi dalle accuse, sarebbe dovuta essere eliminata visto che poi al fine della progressione narrativa non fornisce alcun reale contributo.

Anche io fallisce nel compito di fornire allo spettatore uno sguardo preciso e lucido su una delle inchieste giornalistiche – da non confondere con quella di Ronan Farrow – che portò alla fine degli abusi criminali di Weinstein. L’importanza di raccontare i fatti rimane inalterata e vitale. Quanto al modo in cui la vicenda è stata portata sul grande schermo, i dubbi su un prodotto così fragile sembrano più che legittimi.

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RASSEGNA PANORAMICA
Adriano Ercolani
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