Beasts of No Nation: recensione del film di Cary Fukunaga #Venezia72

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Quando in futuro le nuove generazioni studieranno l’evoluzione dei media e della TV di oggi, certamente si imbatteranno nel nome Netflix. Basti nominare l’oscura House of Cards, di un rigore stilistico superbo, tanto che vi si può scorgere anche lo zampino di David Fincher, Daredevil, che ha reinventato e ampliato il senso di cine-comic, Orange is the New Black e Sense8 dei fratelli Wachowski. Ora il colosso americano è oltre il piccolo schermo e ci troviamo a parlare di Beasts of No Nation, film in piena regola affidato alla direzione di Cary Fukunaga, il genio dietro il successo della prima stagione di True Detective.

 
 

Beasts of No Nation: la trama

Basato sul libro Bestie senza una patria (Beasts of No Nation) di Uzodinma Iweala, è a tutti gli effetti una discesa agli inferi, un viaggio profondo dentro le guerre ‘silenziose’ dell’Africa occidentale, dove i bambini vengono strappati all’infanzia per essere trasformati in soldati, in macchine da guerra pronte a sparare e a uccidere. Un’opera che incanta a livello produttivo, ma anche a livello registico, nonostante l’assenza di qualsivoglia tecnicismo fuori dal comune.

Non c’è infatti tempo e spazio per i piani sequenza alla True Detective, la strada è violenta, brutale, spietata, la camera da presa è mossa, instabile, frenetica, come l’animo di Agu (interpretato dal piccolo Abraham Attah), un bambino che si scopre mercenario all’ombra di un fantomatico comandante che ha il volto di Idris Elba, a causa di un conflitto che gli ha portato via gli affetti, l’esistenza, l’essenza. Attraverso i suoi occhi inermi, camminiamo lungo un sentiero di macerie, spirituali ancor più che letterali, capace di trasformare la guerra in gioco, in terra promessa, in danza tribale, in unico ideale da seguire per un futuro prospero e ricco di belle promesse, di belle speranze. Dietro ogni omicidio, dietro ogni imboscata, si nasconde però un atroce inganno, una linea retta che non si interrompe mai.

Beasts of No NationCary Fukunaga, anche autore della sceneggiatura, prende le nostre viscere e gioca a stritolare, a ferire, a stringere, facendoci diventare spettatori dell’incubo. Pazienti della cura Ludovico, con gli occhi sbarrati sul precipizio, sul burrone; nonostante il riferimento ad Arancia Meccanica, lo spirito kubrickiano rivive in alcuni momenti, alcune inquadrature che citano esplicitamente Full Metal Jacket. Scheletri di edifici in fiamme, tenebrose marce nel fango con voce off, ma non solo: Fukunaga fa pensare implicitamente a Furiosa di Mad Max: Fury Road, alla disperata ricerca della terra fertile che non esiste, ma soprattutto al mondo dei videogiochi.

Agu è quasi la nemesi perfetta di Ajay Ghale, vendicativo protagonista di Far Cry 4, riferimento che si fa ancor più marcato quando lo schermo vira completamente al rosso come nei sogni allucinogeni del titolo Ubisoft. Unico rammarico un finale troppo edulcorato, come uno spaghetto cotto più del dovuto, che somiglia più ad uno spot Unicef; il dolore che resta impigliato nell’anima, il senso di soffocamento e di angoscia, sono però troppo forti per farci caso.

Sommario

Cary Fukunaga prende le nostre viscere e gioca a stritolare, a ferire, a stringere, facendoci diventare spettatori dell’incubo.
Aurelio Vindigni Ricca
Aurelio Vindigni Ricca
Fotografo e redattore sul web, caporedattore di Cinefilos Games e direttore editoriale di Vertigo24.

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