Berlino 2016: Quand on a 17 ans recensione del film di André Téchiné

Dopo aver raccontato le morbosità e le miserie dei ricchi in L’Homme qu’on aimait trop, un melò pomposo molto difficile da digerire, il regista settantatreenne André Téchiné torna sui giusti binari con un film di formazione. Quand on a 17 ans (Avere 17 anni), un viaggio lungo un anno complicato dell’adolescenza, il diciassettesimo, crocevia delle prime esperienze sessuali, delle prime grandi responsabilità della vita adulta, delle battaglie più brutali della guerra universale fra necessità e desiderio. Voci di un coro a due, Tom e Damien, ragazzi irrequieti a loro modo ribelli e solitari, sempre scelti per ultimi quando si tratta di formare una squadra nella palestra della scuola a causa di evidenti difficoltà nel comunicare e nel socializzare. Del resto il primo vive in una fattoria sperduta fra le Alpi francesi, affondata nella neve e a tre ore di autobus dalla scuola, l’unico luogo che alimenta una voglia sana nel ragazzo: diventare veterinario per accudire gli animali con cui divide i suoi giorni.

 

Andre Techine

Il secondo ha un padre arruolato nell’esercito, per la maggior parte del tempo impegnato in missioni di Guerra in Medio-Oriente, dunque assente; in reazione alla sua solitudine, il giovane ripone ogni sua passione nella cucina. Dopo alcuni mesi di lotta feroce nei corridoi dell’istituto, fra pugni e lividi, fra i due inizia a insidiarsi un senso sconosciuto di fiducia, pronto a cambiare ogni prospettiva nel quadro generale degli equilibri. Trimestre dopo trimestre, attraverso le stagioni, il regista e sceneggiatore francese compone un’opera ricca di contrasti, all’interno della quale ogni estremismo viene forzatamente mescolato. Ogni convinzione di ogni personaggio, adulti inclusi, viene spinta a cambiare dagli eventi della vita, immutabili e solenni, ai quali si può soltanto obbedire accettandone le conseguenze. Se da una parte i giovani protagonisti Kacey Mottet Klein e Corentin Fila stupiscono per la loro spontaneità sullo schermo, dall’altra colpisce ancor di più l’esperienza di Sandrine Kiberlain, perfetta nell’incarnare tutti i dubbi e le insicurezze proprie anche della maturità.

Resa instabile dalle fatiche quotidiane e dai continui viaggi del marito, la mente della sua Marianne vacilla come ogni essere umano, diventando a sua volta – come il figlio che sta scoprendo il mondo – un filamento malleabile fra le grinfie del desiderio. Téchiné, nei panni dello sceneggiatore che tutto crea e tutto distrugge, è però misericordioso con le sue pedine: qualsivoglia dolore o sfida ha presto o tardi la sua ricompensa, come ogni passo obbligato della vita. Non si smette mai di crescere, di imparare, di fronteggiare nuove esperienze, così come si è ciclicamente schiavi della paura, ma è ciò che implicitamente accettiamo col venire alla luce, e il cinema – come noi – lo sa bene.

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