Camp X-Ray recensione film

Il crollo delle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001 ha caratterizzato fortemente il mondo contemporaneo: l’attenzione verso i paesi mediorientali è cambiata, ci sentiamo ancora meno sicuri nelle nostre città, abbiamo più controlli da affrontare ai gates degli aeroporti e più domande a cui rispondere una volta entrati in suolo americano. Anche se ormai siamo abituati, la realtà dei fatti è che da ben quattordici anni siamo in guerra: due culture opposte fra loro, due credi, due modi di vedere la vita così diversi eppure incredibilmente simili. Attacchiamo con estrema ripugnanza le scene di prigionia disumane dei guerriglieri islamici dimenticando però le nostre stesse nefandezze, come il carcere di Guantanamo creato dal governo degli USA l’11 gennaio 2002, a quattro mesi esatti dall’attentato alle Twin Towers. L’obiettivo? Tenere in custodia i prigionieri catturati su suolo afgano in tre campi differenti: il Camp Delta, il Camp Iguana e il Camp X-Ray, il più brutale dei tre che ha ispirato Peter Sattler per il suo primo lungometraggio.

 

Camp X-Ray, tra guantanamo e 11 settembre

X-Ray perché al suo interno non esistono segreti, ogni detenuto viene sorvegliato a intervalli regolari di tre minuti, ogni cella viene ripulita da cima a fondo per raccogliere materiale per l’intelligence (in linea di massima scarabocchi, tazze usate, fazzoletti), anche il più piccolo evento come richiedere una bottiglia d’acqua viene annotato e registrato. Amy Cole (una brava Kristen Stewart), chiamata sul posto di lavoro soltanto Cole, presta regolare servizio diurno di sorveglianza, finita a Guantanamo e nell’esercito per obbligo più che per scelta, “per combinare qualcosa nella vita”. Una vita arida, senza cultura, senza emozioni, durante la quale le hanno insegnato soltanto a odiare, a rispettare le regole, anche le più stupide.

Camp X-Ray Kristen Stewart

Ali (interpretato da Peyman Moaadi, l’attore feticcio di Asghar Farhadi) è un prigioniero arrestato in Germania non si sa bene per quale crimine, tenuto in custodia anche dopo il parere positivo del giudice. Nome a Guantanamo: 471. Oltre a dormire e mangiare ha solo due modi per riempire il suo tempo, giocare a sudoku e leggere Harry Potter.

Fra i due inizia un insolito – e difficile, visto l’ambiente ostile – scambio di opinioni attraverso l’oblò della cella, grazie al quale il contesto apparirà meno disperato. Quasi interamente girato fra quattro asettiche mura, Camp X-Ray riesce a creare un senso di claustrofobia nella mente dello spettatore, che come i protagonisti si scopre recluso e intrappolato. Un senso di oppressione dal quale è possibile scappare solo con il dialogo, lo studio, la comprensione, l’ascolto del prossimo, annientando ogni pregiudizio.

Tutti elementi che, al pari della triste storia dietro il personaggio di Piton nella saga firmata J.K. Rawling, possono farci capire che in realtà molti che consideriamo cattivi in realtà non lo sono affatto. I detenuti e i soldati si riscoprono sullo stesso piano, la devozione verso la Mecca non è troppo differente dal saluto alla bandiera americana e l’idea assurda di vedere tutto ai raggi X in realtà ci fa perdere l’essenza delle cose, degli altri uomini. Un piccolo film indipendente certo non privo di difetti, soprattutto nella scrittura prolissa del finale, ma con una direzione ben precisa e un linguaggio semplice e istruttivo, diretto soprattutto ai più giovani.

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