Nonostante i titoli di testa, il loro font, la musica jazz siano sempre identici dopo decenni, come segno assoluto di riconoscibilità, Café Society è in realtà per Woody Allen un debutto più che particolare. Spinto probabilmente dai nuovi Amazon Studios, l’autore di Manhattan si piega al digitale, abbandonando (per sempre?) la cara pellicola. Una scelta che fa quasi sorridere e temere, vista la sinossi e le location del film: siamo divisi fra Los Angeles, terra di opportunità, di peccato, di finanza e affari, e New York, patria dei gangster, dei Night Club, della famiglia, in pieni anni trenta. Gli unici elementi che legano i due mondi sono il vino e il suo fratello più nobile champagne, che all’epoca scorrono a fiumi. Un po’ come l’amore, finita una bottiglia se ne apre subito un’altra, un modo per dimenticare le piccolezze della quotidianità, per affogare il nostro eterno senso di insoddisfazione che ci spinge a lasciare mogli fedeli, a inseguire la strada più facile per il successo personale.

 

Café Society di Woody Allen

Café Society è così un lavoro a metà, che attraverso le due città simbolo dell’America rappresenta la morsa del desiderio e della ragione, che nel mezzo schiaccia i suoi protagonisti e il pubblico. Nonostante non si possa parlare di uno dei migliori lavori di Woody Allen, poiché non possiede la grinta e il carattere degli anni migliori, il modo in cui vede il cinema, lo scrive e lo racconta è sempre immutato rispetto al passato. Chi si aspetta un cambiamento di forma, di stile, resterà per l’ennesima volta deluso, poiché Woody è sempre poetico (soprattutto nella Grande Mela), affronta il cammino con calma, senza cedere alla pressione, e pone nella scrittura la sua tradizionale ironia nei confronti del mondo (e della religione, dei rapporti sentimentali, della legge e così via), affidando anche grande responsabilità ai suoi interpreti.

Il cast, per ripagare la fiducia, è impeccabile: Kristen Stewart, usata spesso per ruolo riflessivi, nostalgici, è invece sorridente, ammaliante, acqua e sapone, affiancata da una Blake Lively spontanea, ugualmente felice e fatale. L’intero soggetto è però sulle spalle di Steve Carell, statuario e fallibile come ogni uomo d’affari, e Jesse Eisenberg, incarnazione del Woody Allen più nevrotico e insicuro. Durante la visione più volte vi capiterà di sovrapporre il viso tragicomico di Allen a quello più giovane di Eisenberg, pensando “chissà che film sarebbe stato 20 anni fa…”.

Café SocietySicuramente, dal punto di vista fotografico, sarebbe stato più in linea con i toni, più graffiante, nostalgico e credibile. Anche se Vittorio Storaro non sbaglia un colpo, un movimento, un’inquadratura, le immagini troppo pulite fanno a pugni con tutto il resto: si fatica a credere agli ambienti, alle azioni, a Los Angeles i set sono anche talvolta spogli, artificiali (che sia pensato appositamente, per dipingere una città lontana dal protagonista?). Oltre l’aspetto visivo però ci troviamo di fronte alla classica poetica alleniana, come già ricordato: questa ci invita a prendere in mano il nostro destino come a subirlo, in quanto pedine impotenti ma non troppo, amanti fedeli ma non troppo, madri apprensive ma non troppo. L’unica certezza è che finita una bottiglia di vino o di champagne, se ne apre un’altra, come i film di Woody Allen; non sempre il contenuto è bene invecchiato, ma si ha comunque un nuovo escamotage per abbandonare per 90 minuti il presente, con classe, qualche rimpianto e un pizzico di malinconia.

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