Dalíland, la recensione del film sul genio di Salvador Dalì

Il 25 maggio arriva in sala il film di Mary Harron sull'artista spagnolo.

Dalíland recensione

Non c’è cosa che quest’uomo non faccia” dice una delle concorrenti del gioco televisivo nel quale l’ospite misterioso era proprio il protagonista del film diretto da Mary Harron che Plaion Pictures distribuisce nei cinema italiani dal 25 maggio. Il suo Dalíland era stato già presentato al Toronto International Film Festival 2022 e fuori concorso al 40° Torino Film Festival, sollevando interesse e curiosità sul biopic interpretato dal Premio Oscar Ben Kingsley, con Barbara Sukowa, Ezra Miller, Christopher Briney e la modella trans Andreja Pejić, nei panni della musa dell’artista e icona pop del nostro secolo Amanda Lear.

 

Vita e opere di Salvador Dalì, o una minima parte di esse

Siamo nel 1974, appena arrivato a New York dall’Idaho, James lavora presso la galleria d’arte Dufresne che ospiterà la prossima esibizione del genio Salvador Dalí. Quando l’artista in persona gli propone di diventare suo assistente, il ragazzo sogna di coronare il sogno della sua vita, per accorgersi presto che non è tutto oro quel che luccica. Dietro allo stile di vita sgargiante, al glamour e ai party sontuosi, un grande vuoto consuma l’ormai anziano pittore, divorato dalla paura di invecchiare e dal dolore per il rapporto logoro con la dispotica moglie Gala, un tempo sua musa e ora circondata da giovani amanti e ossessionata dal denaro.

Luci e ombre di Dalíland

Sul “Benvenuto a Dalíland” del segretario di Salvador Dalí, la porta si apre su un mondo difficile, quasi impossibile, da rappresentare. Ma un genio strabordante ed egocentrico e come quello del poliedrico artista di Figueres merita ogni omaggio possibile, per quanto parziale e naturalmente limitato nel rendere il suo immenso amore per la vita e la passione che metteva in ogni manifestazione del suo talento. Un’impresa che forse non andava affidata a uno sceneggiatore come John Walsh, attivo soprattutto nel corto, e che l’esperta Mary Harron (American Psycho) sembra aver affrontato più per piacere personale, dopo aver inseguito in passato Andy Warhol (1996), Bettie Page (2005) e Charles Manson (2018).

Al netto del filtro offerto dal James di Christopher Briney (testimone della storia, come il Zac Efron di Me and Orson Welles o l’Eddie Redmayne del Marilyn di Simon Curtis), il film – presentato come biopic – rischia in partenza di spiazzare lo spettatore, concentrato com’è su una porzione ben precisa della vita di Salvador Dalì. Vera icona senza tempo alla quale Ben Kingsley rende giustizia con una interpretazione fin troppo mimetica ma funzionale e riuscita, pregi che purtroppo non si trovano nella versione giovanile dell’artista affidata a Ezra Miller (che la regista sembra volesse a tutti i costi, nonostante lo si veda molto poco), anche a causa di una forma discutibile che sembra cercare l’originalità a tutti i costi.

Forse sentito come obbligo, visto il tema trattato, oltre a certe scelte di casting (ma non sarebbe stato facile per nessuno interpretare Amanda Lear) è spesso la messa in scena a convincere meno e a indebolire il complesso. Che certo avrebbe tratto vantaggio dal mostrare qualcuna delle opere del pittore, se i produttori ne avessero avuta la possibilità, piuttosto che suggerirne l’ispirazione in maniera piuttosto goffa e stilisticamente poco omogenea. Più interessante – insieme al tentativo di rendere l’importanza e il temperamento della moglie russa Gala e le citazioni di Buñuel, Magritte, Paul Éluard e Alice Cooper – è l’accenno alla collaborazione tra Dalì e Walt Disney, conosciutisi alla fine della Guerra e rimasti per sempre amici, della quale ci resta il progetto “Destino” rispolverato dopo la morte di entrambi e trasformato in un corto da Roy Disney.

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