Luc Besson torna al grande racconto mitico con Dracula – L’amore perduto, scegliendo un’angolazione personale e dichiaratamente romantica: Dracula non come incarnazione della paura, ma come amante maledetto, condannato all’eternità da un lutto originario. Nel prologo, Vlad perde Elisabeta, rinnega Dio e ottiene la maledizione della vita eterna. Secoli dopo, tra Parigi e Londra, riconosce in Mina la reincarnazione dell’amata e la insegue con una devozione che pretende di trasformare il classico gotico in una tragedia romantica. Al posto del canonico Van Helsing, troviamo un sacerdote senza nome che agisce “in nome dell’anima” più che della scienza: un cambio di pedine che chiarisce l’intento del film, spostato dalla caccia al vampiro alla redenzione (impossibile) dell’uomo dietro il mostro.
L’orrore dimenticato in nome del sentimento
Sulla carta, la deviazione funziona: usare l’amore come chiave di volta potrebbe restituire al mito un punto di vista meno frequentato, o almeno meno scontato. Sullo schermo, però, questa impostazione finisce per svuotare il personaggio della sua dimensione predatoria. Besson insiste sull’estetica del desiderio – balli, saloni, velluti, candele, castelli – e sostituisce l’ipnosi del morso con un espediente fiabesco: il “profumo perfetto” con cui Dracula piega le volontà. L’idea genera due momenti che restano impressi: l’assalto a Versailles, travolto da un impeto sanguigno che altrove manca, e la scena nel convento, dove le monache, stordite dall’aroma, si ammassano in un’estasi coreografica che sfiora Ken Russell per furore visionario. Ma sono lampi isolati dentro un film che evita la paura, attenua l’eros, addolcisce la minaccia.
Caleb Landry Jones, un vampiro senza fascino
Caleb Landry Jones affronta il ruolo con una dedizione fisica evidente (come già dimostrato in Dogman e Nitram): voce cavernosa, corpi storti, età che si stratificano grazie al trucco. A tratti è inquietante, a tratti magnetico: raramente, però, risulta davvero seducente. Il suo Dracula resta introverso, ripiegato, più reliquia che presenza irresistibile. Il make-up offre momenti convincenti e altri in cui scivola nel cosplay, accentuando l’impressione di “teatro di posa” invece che di carne viva. Christoph Waltz, sacerdote-cacciatore, recita con la misura abituale ma lascia poco: eleganza, ironia, qualche guizzo, il tutto in pilota automatico. Tra le interpreti, Zoë Bleu Sidel lavora di sguardi per colmare i vuoti di scrittura di Mina/Elisabeta; Matilda De Angelis, vampira elettrica e imprevedibile, è quella che più riaccende il film quando l’andamento si fa piatto.
Il barocco svuotato di Luc Besson
Il problema cardine è la costruzione del sentimento. Se l’ambizione è spostare il baricentro sull’amore, allora quell’amore deve risultare inevitabile, doloroso, vissuto. Qui, invece, si regge su un montaggio iniziale di idilli e su un presupposto “fatale” ripetuto più volte senza guadagnare densità. La messa in scena raramente traduce in azione o spazio l’attrazione tra i due: Besson racconta più di quanto faccia sentire. Così, nella seconda ora, quando bisognerebbe stringere, Dracula – L’amore perduto si affloscia: interni sempre più chiusi, scene che girano su se stesse, un antagonista che non fa mai davvero paura, un confronto finale che guarda più alla messinscena bellica che al gotico.
Un mito senza sangue né reinvenzione
La scelta di sostituire Van Helsing con un sacerdote avrebbe potuto aprire una linea teologica interessante: colpa, perdono, peccato originaria come ferita che sanguina nei secoli. Dracula – L’amore perduto, però, accenna e ritrae, preferendo ribadire l’ossessione romantica a scapito del conflitto morale. Allo stesso modo, l’idea – sulla carta promettente – di raccontare Dracula dal suo punto di vista resta a metà: non scava davvero nella mostruosità dell’amore possessivo, non abbraccia fino in fondo la via del melodramma tragico, non osa disturbare. È come se Besson cercasse un equilibrio tra feuilleton e barocco, senza accettare le conseguenze radicali di nessuno dei due.
Il morso che non lascia segno
Dracula – L’amore perduto è un’operazione che promette una deviazione e la percorre a metà. Rinuncia all’orrore senza trovare un equivalente emotivo, invoca l’amore eterno senza costruirne davvero la necessità, insegue il sublime e spesso inciampa nel decorativo. Rimangono una manciata di immagini, qualche intuizione, la generosità degli attori: troppo poco per giustificare una nuova incarnazione del conte nell’anno in cui altre letture del vampiro hanno ricordato quanto il mito sappia ancora mordere.
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