Già ai tempi di Fiore gemello, nel 2019, avevamo lasciato Laura Luchetti al lavoro su una storia – come la descrisse lei – “molto bella, che voglio trattare con rispetto, perché si basa su una novella italiana”, come quella liberamente tratta dal romanzo del 1940 di Cesare Pavese che in questi giorni arriva nelle nostre sale, prima a Roma – con una serie di anteprime nei cinema Giulio Cesare, Greenwich e Quattro Fontane – e poi in tutta Italia, a partire dal 24 agosto, distribuito da Lucky Red. La bella estate è, per usare le sue stesse parole, “la storia di una verginità che si difende” nella quale la giovane Yile Yara Vianello (Corpo celeste) e la Deva Cassel figlia di Monica Bellucci e Vincent Cassel sono le due facce di una femminilità che emerge come assoluta protagonista, con i suoi timori e un incontenibile desiderio di libertà.
La bella estate di Yile Yara Vianello
Torino, 1938. A Ginia (la Vianello), che si è appena trasferita in città dalla campagna, il futuro nel capoluogo piemontese sembra offrire infinite possibilità. Divisa tra il lavoro in un atelier di moda e la condivisione della casa con l’apprensivo fratello operaio, come tutte le ragazze della sua età sogna di innamorarsi. Magari del giovane pittore che conosce frequentando la Torino più bohémien, ambiente nel quale la conduce Amelia (Deva Cassel), poco più grande di lei, ma molto più sensuale e provocante. La ragazza è diversa da tutte le persone che Ginia abbia mai conosciuto in vita sua, e pronta a scuotere le sue certezze. Divisa tra il senso del dovere e la scoperta di un desiderio che la confonde, Ginia è travolta da emozioni cui non sa o non osa dare un nome. Fino a che, alla fine di una estate “bella” e sorprendente, finalmente si arrende ai propri sentimenti, celebrando il coraggio di essere se stessa.
Una donna moderna nella
Torino del secolo scorso
Ripartire da Pavese è sempre una buona scelta, e una regista come Laura Luchetti sicuramente non manca della sensibilità necessaria a rendere una vicenda ambientata alle soglie della Seconda guerra mondiale facilmente comprensibile e condivisibile anche a un pubblico più giovane e moderno, poco attratto dall’adattamento in sé. D’altronde non sarà difficile rivedersi nella storia di questa ragazza “libera” in cerca di una identità e di una strada, desiderosa di innamorarsi, ma pronta a sbagliare e imparare, ed empatizzare con lei.
Grazie alla notevole interpretazione della Vianello, ben affiancata dall’esordiente suddetta figlia d’arte (prossimamente nella serie Il gattopardo e che sostiene di non aver mai visto i film di mamma Bellucci e papà Vincent), ma soprattutto a una regia tanto attenta ai dettagli quanto capace di spaziare tra diversi palcoscenici e contesti, gestendo bene stacchi e cesure, nel rispetto dei suoi personaggi, dell’ambiente in cui si muovono e di una pulizia formale non consueta.
Forse troppa, ché a tratti si ha l’impressione che lo spaesamento della giovane appena arrivata dalla campagna – alle prese con la città, gli uomini, le convenzioni e l’arte, ma anche con desideri nuovi, e possibilità, anche per le donne, per le quali sembrava addirittura impossibile sognare – sia fin troppo patinato e che lo scavo psicologico resti piuttosto didascalico, forse condizionato dall’origine letteraria, una possibilità poco sfruttata.
Il dramma d’epoca, sotto una superficie di sartine e operai, da documentario su quel piccolo mondo antico diventa racconto di un rapporto particolare, nella quale da vittime del sessismo imperante e dei ruoli tradizionali Amelia e Ginia si scoprono a vicenda. Attraverso strappi e sgarbi, sempre rischiando, in un gioco di simmetrie e un’alternanza di punti di vista, che supera l’elegia dell’innocenza più evidente. Lo sguardo dell’altra, più che dell’artista, e l’esempio – ora positivo, ora negativo – creano la possibilità di una presa di coscienza e di una espressione di sé nella quale molte spettatrici di oggi troveranno qualcosa che le riguarda.