A davvero poca distanza – tre mesi! – dall’arrivo sulla piattaforma di streaming di Amazon Prime Video del suo precedente Io e mio fratello, il milanese Luca Lucini torna a parlare al pubblico con Le mie ragazze di carta. E a presentare al cinema il film già annunciato come il suo più ‘personale’, una storia “cui sono particolarmente legato, – come dice lui stesso, – la prima che sento veramente mia da quando ho iniziato“. Prima ancora dell’esordio di Tre metri sopra il cielo del 2004, quando lavorava soprattutto con i videoclip (da Alexia a Carmen Consoli e Angelo Branduardi).
In sala a partire da giovedì 13 luglio, distribuito da Adler Entertainment, Le mie ragazze di carta è il racconto di una perdita dell’innocenza molto particolare, che si intreccia con l’amore per il cinema nell’Italia cattolica e conformista degli anni ’70, nella quale Maya Sansa, Andrea Pennacchi, Cristiano Caccamo, Giuseppe Zeno e Neri Marcorè hanno tutti dei ruoli fondamentali nella scoperta del mondo del giovane e interessante Alvise Marascalchi (già visto in Mamma o papà di Riccardo Milani).
Le mie ragazze di carta – Benvenuti nell’Italia degli anni ’70
E’ un momento importante nella vita della famiglia Bottacin, decisa a lasciare la campagna dove ancora vivono amici e parenti per trasferirsi in città, a Treviso. Primo (Pennacchi) ha vinto – faticosamente e non senza aiuti – il concorso per entrare alle Poste e un nuovo orizzonte si apre davanti a lui e la moglie Anna (Sansa). Forse meno complicato di quello che attende il giovane Tiberio, il figlio adolescente della coppia, che più di tutti finisce per subire il contraccolpo della nuova realtà.
Una cittadina in rapida
espansione, e in trasformazione, sociale ed economica, ma dalle
radici contadine e cattoliche molto profonde e radicate, che ancora
condizionano il modo di pensare della gente della piccola e
laboriosa provincia settentrionale. Le voci sull’esuberante parroco
(Marcorè) o l’ipocrisia che circonda la locale sala cinematografica
sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano il racconto di
un periodo storico, ma soprattutto il cambiamento che scopriranno
dentro di sé i nostri protagonisti, divisi da sentimenti,
riflessioni e pregiudizi che non avevano mai conosciuto prima.
Solita provincia, insoliti protagonisti
Classe 1967, Luca Lucini aveva poco più di 10 anni all’epoca nella quale è ambientata quella che lui stesso definisce la “storia vera del mio passato, la storia di un cinema davanti a casa nel quale ad un tratto non potevo più entrare, senza capire il perché”, che lo scomparso Mauro Spinelli – sceneggiatore al quale Le mie ragazze di carta è dedicato – trasferì da Milano a Treviso aggiungendo la famiglia protagonista e vincendo il premio Solinas nel 2007. Una storia che viene da lontano, produttivamente, e che racconta un tempo ormai lontano, tanto da sembrare fantascienza, o documentario.
Qualcosa che ricorda molto cinema italiano già visto, come l’uso della voce narrante o la costruzione di una provincia conformista e ipocrita nella quale vediamo muoversi dei protagonisti avulsi e diversi. Per una volta, di area democratico-cristiana, nel senso della ‘Balena Bianca’ che la storia patria – anche culturale – sembra paradossalmente aver dimenticato, nonostante i tanti film su Aldo Moro.
Una connotazione esplicitata solo inizialmente, ma implicita nella fotografia di una società italiana marcata da un bigottismo che, per altro, non appartiene all’unico sacerdote che vediamo rappresentato. E ancora confusa sul concetto di modernità, per molti limitata alla tv a 99 canali e i sofficini, ma che i Bottacin hanno il coraggio di realizzare in una emancipazione naturale affrontata con l’ingenuità e il buon senso contadini di quegli anni. Non senza fatica o conflitti, ognuno a modo suo, eppure senza traumi, né per la scoperta della transessualità, né del porno, né di un possibile ruolo diverso della donna.
Proprio il sesso è un elemento che Lucini gestisce con garbo, eppure fondamentale, come innesco per una serie di riflessioni altre dei tre protagonisti. Inizialmente spaesati, nel tentativo di riconoscere una felicità ormai raggiunta al netto della nostalgia per quanto perso e dell’importanza di accettare la separazione come naturale in una vita che amplia i suoi confini.
Temi con i quali molti potranno identificarsi, ma che probabilmente mancano di dare alla vicenda quel quid di unicità, anche stilisticamente, nonostante l’incipit animato. L’intolleranza verso un progresso disumanizzante è ormai comune, come quella per il frustrante confronto con l’immagine che altri scelgono di dare di sé o di pretendere dai propri simili, come anche il finale scelto. Anticipato dalla divertente commistione di sacro e profano del ‘miracolo’ del sexy show e poi dallo scarto definitivo che rende Le mie ragazze di carta un ‘coming of age’ vero e proprio, sebbene con qualche disomogeneità nello sviluppo, e nel quale l’immagine dell’amore reale, puro, che vince su quello dedicato a delle ‘ragazze di carta’ rischia di prestarsi a interpretazioni non volute e diverse da quelle della iconica celebrazione del cinema come luogo del ricordo e delle emozioni.