Mia, la recensione del nuovo film di Ivano De Matteo

Il film è in sala dal 6 aprile, grazie a 01 Distribution.

mia recensione

Ogni film di Ivano De Matteo si rivela una occasione per confrontarci con noi stessi, e anche nel suo nuovo Mia, il regista romano si conferma in grado di costringerci ad affrontare le paure e le debolezze che molti di noi vivono quotidianamente. Quelle di cui leggiamo, delle quali è facile illudersi di conoscere le implicazioni o immaginare le soluzioni, quelle che vanno oltre la violenza fisica e che sullo schermo vediamo prendere corpo nella storia di Revenge Porn e non solo che coinvolge Edoardo Leo, Milena Mancini (La terra dell’abbastanza), Riccardo Mandolini (Baby) e che ruota intorno all’esordiente Greta Gasbarri.

 

La storia di Mia

Leo e Mancini sono Sergio e Valeria, marito e moglie romani, divisi tra complicati turni di lavoro e il tentativo di essere felici. Si amano, nonostante le difficoltà, e fanno del loro meglio per essere genitori presenti, per non far mancare nulla alla loro figlia Mia, compresa una educazione fatta di buon senso e qualche regola basilare. Quelle che è giusto insegnare a una ragazza di quindici anni, e magari esser disposti a vederla infrangerle.

Come abbiamo fatto tutti, come hanno fatto anche loro, che vogliono per lei una vita normale: scuola, sport, amici e un fidanzato. Non certo come Marco, venti anni e più di qualche soldo in tasca, un ragazzo violento e manipolatore che irrompe nella vita della ragazza e della famiglia rendendola un incubo. Ma il peggio deve ancora venire, quando la ragazza, aiutata dal padre ad allontanarsene e riprendere la sua vita, diventa la vittima della vendetta del giovane bullo.

Amore, uomini e donne

“Che coss’è l’amor?” chiede la canzone di Vinicio Capossela in un onnipresente spot di questi giorni, una domanda che le stesse cronache spingono a porsi ogni volta che un nuovo caso di violenza o abusi allunga il lungo elenco di altri simili. Una domanda che nel film di Ivano De Matteo trova più di una risposta. Una per ciascuno dei personaggi ai quali dà voce, e ai quali rivolge la sua attenzione. Come d’abitudine, ché il regista romano da sempre racconta personaggi comuni – nel bene e nel male, o in entrambi – mettendosi loro accanto, evitando di affidarsi ai pregiudizi, con un rispetto evidente anche in alcune scelte tecniche. Personaggi che a volte sembra tirare fuori da sé stesso, certo da una capacità di osservazione particolare, con una onestà che spesso fa la differenza.

In questo caso con maggior coinvolgimento di altre volte, forse, visto che lo stesso regista è padre di una figlia di quindici anni, “il primo motivo per cui desideravo fare della sceneggiatura di Mia un film”, come dice lui parlando di una storia che lo ha costretto a immedesimarsi nei drammi delle parti in causa, e a vivere la loro rabbia. Come potrebbe accadere a buona parte del pubblico. Della sua età o di quella che quotidianamente vive insicurezze, ansie di protagonismo e di accettazione, ossessioni e live di TikTok.

Un pezzo di mondo troppo spesso influenzato da modelli fasulli, che rinuncia alla propria identità in nome dell’omologazione finendo per ridursi a una dicotomia preda-predatore che non lascia scampo a nessuna delle due possibilità. Una ‘disperazione’ che confusamente si avverte sin dall’inizio del film, insieme a un’angosciante sensazione di disastro incombente che De Matteo costruisce senza mai eccedere nelle caratterizzazioni dei personaggi del suo universo. Tutti credibili, nelle loro parabole, più o meno accentuate, e nel loro percorso verso un inferno nel quale anche il gesto più innocente rischia di nascondere altro e vedere stravolto il proprio significato.

Tutti ben diretti, tra ellissi e sottolineature, nonostante un evitabile ‘spoiler’ materno e un eccesso di didascalismo da ‘prima volta’ dei quali si potranno non condividere i tempi, ma che – con il resto – danno forza alla rappresentazione di una realtà che è la nostra, dei nostri figli, dei nostri amici, tutti ugualmente bisognosi di ‘cura’ e tutti similmente soli. Abbandonati o incompresi, nella migliore delle ipotesi, da chi dovrebbe darci sicurezza. Stato compreso, come sembra suggerire la conclusione, nella quale torna ad affacciarsi l’attenzione del regista all’infinito dibattito su regole e sicurezza, giustizia e legittima difesa.

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