Monkey Man: recensione del debutto alla regia di Dev Patel

L'attore di The Millionaire e Lion esordisce alla regia con un film di genere con qualcosa di diverso dagli altri, nel bene e nel male.

monkey man recensione

Azione, revenge movie, critica sociale e Bollywood si mescolano in un solo film, al cinema dal 4 aprile. Distribuito da Universal Pictures, arriva in sala Monkey Man, atteso debutto alla regia di Dev Patel, volto noto a tutti sin dai tempi del The Millionaire che per l’occasione passa dietro la macchina da presa con un thriller d’azione non proprio classico – ispirato alla leggenda indiana di Hanuman – che lo vede tra i produttori, insieme al Premio Oscar Jordan Peele. Oltre che tra gli sceneggiatori, con Paul Angunawela e John Collee (Master & Commander: Sfida ai confini del mare), e tra i protagonisti, insieme a Sharlto Copley (District 9), Sobhita Dhulipala (Made in Heaven), Pitobash (Million Dollar Arm), Vipin Sharma (Attacco a Mumbai) e Sobhita Dhulipala.

Monkey Man, trama

Difficile definire “protagonista” il giovane senza nome che vediamo combattere sul ring di un fight club clandestino per guadagnarsi da vivere. Un corpo senza volto, nascosto da una maschera da scimmia, che il proprietario del Tiger Temple sfrutta come vittima designata per lottatori più forti e più famosi in nome dello spettacolo. Un inferno che si ripete, notte dopo notte, in attesa di una occasione, per ottenere una vendetta insperata più che una quasi impossibile svolta, quella che il giovane aspetta da tempo, da quando dei crudeli uomini corrotti che hanno ucciso sua madre e continuano a vittimizzare sistematicamente i poveri e i deboli del suo Paese. Quella che sembra concretizzarsi quando, dopo anni di rabbia repressa, il nostro ‘eroe’ scopre un modo per infiltrarsi nell’enclave della sinistra élite della città e scatenare una esplosiva ondata di vendetta per regolare i conti con chi gli ha tolto tutto.

Monkey Man, né The Raid né John Wick

Un uomo vestito di nero accarezza un cane, lo nutre, gli si affeziona, poi, quello stesso uomo vestito di nero scatena l’inferno, in un crescendo di violenza nel quale avanza mietendo vittime nei modi più coloriti e fantasiosi… Impossibile non pensare all’ormai celebre John Wick (che con intelligenza viene esplicitamente citato) o all’inarrivabile The Raid seguendo la parabola del povero protagonista dell’esordio alla regia di Dev Patel, un pastiche – o pasticcio – che gli appassionati del genere apprezzeranno molto, ma con dentro qualcosa di più del solito: delle differenze.

Nella forma, nella sostanza, nella premessa e nella conclusione, tanto per sintetizzare. E per non trascurare i meriti di Patel, che pur con qualche distrazione o sbandamento si presenta con una prova notevole, soprattutto dal punto di vista dell’impegno, messo in ogni aspetto della realizzazione, dalla produzione alla sceneggiatura, fino alla regia e all’interpretazione (stunt e lesioni comprese), ma soprattutto per la conoscenza e consapevolezza dello strumento e dei mezzi con cui raggiungere il risultato voluto.

Una storia di rivalsa e giustizia, più che un Revenge Movie

Che, come dicevamo, non è esente da appunti, soprattutto per il tentativo di mettere troppa carne al fuoco, anche in una storia atipica – per il nostro mercato o rispetto ai prodotti cui siamo abituati – come questa. Monkey Man è una storia di rivalsa più che di vendetta, nella quale le questioni sociali e civili sostengono la ragione principale che anima il lottatore con la maschera da scimmia. Un signor nessuno, pronto e abituato a fare i lavori che nessuno vuole, a sanguinare e a portare su di sé i segni del dolore provato, senza nasconderli, più per il disinteresse altrui che per altro.

Un signor nessuno che non ambisce a diventare qualcuno, quanto semmai a restituire il potere al popolo, dei diseredati, dei paria, oggi vittime della Gig economy, trans, omosessuali e discriminati di ogni sorta. Ed è sicuramente forte l’influenza delle radici indiane, di un Paese dove classi e diritto divino sono parte di una cultura millenaria di generazioni, tanto nel tentativo di restituire dignità a certe categorie, quanto nella costruzione di certe scene di combattimento, figlie del cinema di Bollywood più classico, purtroppo almeno in un caso scimmiottato in maniera confusa invece che reso con la fubizia che ci aveva mostrato il RRR del 2022.

Confuso, diseguale e folcloristico, ma esplosivo

Doveva essere parecchio che il buon Dev covava questo desiderio, forse certa rabbia, e che si era stufato di fare “l’indiano” in qualche maniera, e queste sono le conseguenze: una curiosa combinazione di cliché e istanze personali, nella quale non sempre è facile conservare un equilibrio, nella quale il ritmo è inevitabilmente diseguale, a tratti compresso, a tratti spiazzante (soprattutto nella parte centrale, nella quale si ‘inciampa’ e che allenta la tensione), spesso portato avanti per immagini giustapposte (che in compenso aiutano a evitare i danni fatti dagli sceneggiatori di titoli analoghi) o per l’intervento di personaggi secondari, a turno fatti emergere dallo sfondo senza esser particolarmente presentati o curati.

Certo, non una storia alla quale chiedere verosimiglianza – per quanto la sua anima ‘ribelle’ grondi realtà – anche per certi eccessi al limite del folcloristico e una cura visiva esagerata. Che fa sì che l’Uomo Scimmia non sanguini mai in volto nonostante pestaggi da carcere, restando sempre fascinoso e scarmigliato ad hoc, non mostri nemmeno un occhio tumefatto dopo esser stato colpito da una mazza ferrata, o – nella canonica mezz’ora finale di ultraviolenza – non ci sia nessuno, in una struttura piena di agenti di sicurezza e guardie del corpo, che spari al “terrorista” di turno. Come viene definito il nostro, non a caso, tanto per citare anche la facilità con cui si bolla chi va contro il sistema, l’ingiustizia o il pensiero comune – nel film quello del partito supremo – e per aggiungere agli altri un implicito monito a evitare l’uniformità di pensiero, di visione, di giudizio dilagante.

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