Dopo l’incredibile successo di
Quasi Amici del 2011,
Éric Toledano e Olivier Nakache
tornano nelle sale italiane con Samba e
una storia – come tradizione ormai – di altissimo impegno sociale.
I due autori francesi si lasciano alle spalle il tema della
disabilità per raccontare, in modo piuttosto dettagliato,
l’universo sotterraneo degli immigrati a Parigi. Immigrati
extracomunitari che, a differenza di noi europei, hanno davvero
un’odissea da affrontare per conquistare il possesso
di documenti, contratti di lavoro, visti, permessi e
quant’altro.
A tal proposito, da
cittadino italiano trapiantato proprio a Parigi, chi scrive si è
scontrato con la macchinosa burocrazia d’oltralpe senza
mai subire scossoni particolari. Alla fine di ogni
documento, di ogni modulo, c’è sempre la parte dedicata “agli
allegati extra”, ulteriori carte da fornire ma “solo per i
residenti fuori dall’Unione Europea”. Samba è invece di nazionalità
senegalese, nonostante viva à Paris da dieci anni ha
ancora difficoltà a integrarsi legalmente. Non solo gli è precluso
ogni contratto ufficiale di lavoro, ad ogni controllo rischia di
finire in galera con un conseguente obbligo di espulsione. È
frequentando gli affollati uffici dell’assistenza sociale che
incontra Alice, l’unica persona che prende seriamente a cuore – in
senso letterale – la sua storia.
Replicare, o comunque
avvicinare, la perfezione stilistica di Quasi Amici, un
film ottimamente bilanciato, compatto e scritto meravigliosamente,
era per forza di cose molto difficile. Samba strizza
l’occhio ai fratelli Dardenne durante un’ottima
prima parte, per poi sfaldarsi pian piano in un potpourri di
elementi diversi fra loro. A mettere troppa carne al fuoco si
rischia ovviamente di far perdere interesse allo spettatore, di
confondere e di smarrire l’orizzonte. Un peccato, al netto dei
buoni e impegnati contenuti, che comunque appassionano il giusto e
incuriosiscono. Promossi a pieni voti invece gli interpreti,
Omar Sy, che al quarto film con il duo
Toledano-Nakache si conferma loro attore feticcio, è sempre più
maturo e ha pieno controllo della scena.
Charlotte
Gainsbourg riesce ancora a sorprendere in modo semplice
dando vita a un’assistente sociale impacciata, fragile, spaesata,
un lavoro completamente opposto rispetto – tanto per fare un
esempio lampante – al più deciso ruolo di Nymphomaniac, segno di
immenso talento. A smuovere il paesaggio, incarnando l’ironia
feroce dei due autori francesi, un Tahar Rahim
sfrenato e dinamico, svantaggiato soltanto dai tratti sommari del
suo personaggio. Si risolve il tutto in un finale ambiguo, durante
il quale ottimismo e pessimismo urtano fragorosamente sotto le
note dell’onnipresente Ludovico Einaudi, autore
della colonna sonora. L’unica certezza è che ciò che conta
realmente è ciò che siamo, nel profondo, oltre ogni linea stampata
sui nostri documenti, visti e contratti. Uomini.