The Covenant, la recensione del nuovo film di Guy Ritchie

Il nuovo sorprendente lavoro di Ritchie vede protagonista Jake Gyllenhaal.

the covenant recensione

Due uomini sono seduti l’uno di fronte all’altro. Il primo chiude gli occhi spossato, finalmente ha il coraggio di concedersi un momento di sollievo dalla tensione. L’altro al contrario li tiene bene aperti, scruta il paesaggio, si rivolge all’orizzonte e al futuro in quanto ha saldato il suo debito.

 

Si tratta di un’inquadratura molto semplice contenuta in The Covenant, eppure possiede qualcosa di speciale: sa raccontare in profondità ma soprattutto in maniera esaustiva chi sono i due protagonisti del film, e quale rapporto li lega. Si tratta del sergente dell’esercito John Kinley (Jake Gyllenhaal) e dell’interprete Ahmed (Dar Salim), due uomini fin troppo diversi tra loro che prima lottano per la sopravvivenza, poi perché in qualche modo costretti da un’idea di fratellanza che soltanto l’orrore di una guerra sa inculcare nell’essere umano.

The Covenant: l’uncino

Una parola specifica è la chiave di The Covenant, nuovo film di guerra diretto dal prolifico Guy Ritchie: hook. Ovvero uncino, in questo caso inteso come quella parte dell’amo che penetra nella carne portando con sé sangue e dolore. Qualcosa da cui non ci si libera, anzi il solo provarci non fa che aumentare la sofferenza. Lo spiega Kinley al suo superiore in una delle scene più intense di un lungometraggio che possiede proprio questo come suo maggior pregio: la potenza di quello che vuole e sa esprimere. Di lungometraggi più o meno riusciti sull’Afghanistan e il conflitto che vi è stato (invano) combattuto ne abbiamo visti molti fino a oggi.

Quello di Ritchie non si allontana dagli stilemi già esplorati, non si discosta da essi per originalità della storia o della visione. Eppure possiede qualcosa in più, che non risulta affatto semplice tradurre in parole scritte: il rapporto che si sviluppa tra John e Ahmed – e un grande punto a favore del film risulta quello di non spiegare veramente quale esso sia – possiede una forza fuori dal comune, che Ritchie riesce ad esprimere alternando due fattori in maniera onestamente sorprendente. Il primo è ovviamente l’efficacia della messa in scena, e questo non costituisce affatto una novità quando ci riferiamo all’autore di Sherlock Holmes e King Arthur.

Ci sono dei momenti di enorme spessore drammatico in The Covenant, in particolar modo la battaglia che determina il destino di John e Ahmed rimane davvero impressa nel cuore dello spettatore. Ritchie non si tira indietro nel mostrare, magari anche enfatizzare, l’inferno della guerra. Il suo modo di adoperare gli scenari naturali in maniera secca, mai abbellita, precipita i personaggi in un ambiente sempre ostile, che non concede nemmeno per un’inquadratura il riposo psicologico di una bella veduta da cartolina.

Quando poi il dramma diventa maggiormente personale, ovvero quello di un soldato che quasi suo malgrado si sente legato a colui che gli ha salvato la vita, il regista adopera i mezzi del cinema gli offre per esplicare una vera e propria pulsione ossessiva. Sotto questo punto di vista le notevoli musiche di Christopher Benstead – alla sua quarta collaborazione col cineasta britannico – offrono al lungometraggio un contrappunto vibrante.

I silenzi sorprendenti di Ritchie

Ma la cosa più emozionante di The Covenant, e lasciatelo scrivere anche sorprendente, sono i silenzi: quello stesso Ritchie che ha mirabilmente caricato la messa in scena sa anche quando lasciare che a esprimere tutto siano soltanto degli sguardi, quel non detto capace di raccontare ciò che è troppo doloroso esprimere a parole. Ci sono almeno un paio di tali inserti nel suo film, e meritano di essere sottolineati anche per lo spessore drammatico che gli sanno offrire Jake Gyllenhaal e Dar Sali, coppia di protagonisti da accomunare in un sentito applauso.

Dopo qualche escursione ondivaga nel cinema di genere leggero ed effervescente, Guy Ritchie tira fuori dal proprio cilindro un film che può essere efficacemente riassunto con l’aggettivo di potente. The Covenant non si discosta – anzi proprio non vuole discostarsi – dal filone del dramma bellico ambientato nel contemporaneo Medio Oriente. Quello che mostra è in fondo molto semplice: la guerra può colpire un essere umano nel corpo quanto nella mente, può creare legami talmente forti da provocare dolore e ossessione. Ahmed ma soprattutto John non sono eroi ma vittime di ciò che hanno dovuto vivere. Vittime delle azioni che devono compiere perché, anche lontani dal campo di battaglia, ormai non hanno realmente altra scelta. E questo The Covenant lo racconta come pochi altri hanno saputo fare.

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