The Meyerowitz Stories: recensione del film di Noah Baumbach

The Meyerowitz Stories

Se siete in grado di definire la vostra una famiglia felice, consideratevi dei privilegiati, dei fortunati. Nel mondo che abbiamo creato non sempre le cose funzionano al meglio, senza intoppi, al contrario le famiglie si sfasciano senza troppi rimorsi; ci si sposa con leggerezza, si divorzia e ci si risposa con altrettanta nonchalance, anche tre-quattro volte, e poco importa se da tutti questi fugaci legami (che dinanzi a Dio si volevano eterni) nascano dei figli. Noah Baumbach racconta la sua personalissima idea di famiglia allargata contemporanea in The Meyerowitz Stories, tagliando a spezzoni le vite dei membri principali nel momento stesso in cui il destino li riunisce per una medesima causa.

 

Partiamo però facendo un po’ di chiarezza: Harold Meyerowitz, un Dustin Hoffman pesantemente invecchiato, è un anziano artista che vive a New York, dal suo primo matrimonio ha generato Danny e Jean, Adam Sandler ed Elizabeth Marvel, dal suo secondo invece Matthew, Ben Stiller. I figli frequentano pochissimo il padre, lo vedono assolutamente di rado, e ognuno ha una qualche instabilità emotiva. Danny è insicuro, divorziato a sua volta con una ragazza a carico, Jean invece è pessimista di natura anche a causa di una mezza violenza sessuale subita in passato. Matthew è l’unico davvero realizzato, con un lavoro che gli permette una vita agiata, a causa del quale però mette da parte gli affetti, moglie e figli.

The Meyerowitz StoriesIl regista americano approfitta di quattro caricature, quattro archetipi per spiegare per filo e per segno l’incomunicabilità della nostra epoca, con ironia e piglio d’autore. Una incomunicabilità non generale, relativa alla società, di gran lunga peggiore: interna proprio alle famiglie americane, con padri, madri, figli e nipoti allo sbando, senza direzione. Un tema importante, che potrebbe anche sembrare pesante e pomposo, chi conosce Baumbach però conosce anche il suo stile: The Meyerowitz Stories diverte dal suo primo istante fino all’ultimo, grazie ad un humor nero e grottesco che ferisce i personaggi ma non il pubblico. Le costanti frecciate della sceneggiatura nascondono però tantissima sostanza, oltre a quello che abbiamo già detto troviamo anche una critica feroce al modo di crescere e vivere negli USA.

Ognuno è in costante rivalità con qualcun altro, i figli vogliono essere migliori dei padri, i padri migliori dei figli, i fratelli migliori dei fratelli, un meccanismo che alla lunga logora e distrugge i rapporti incondizionatamente. L’autore di Frances Ha tira un freno d’emergenza, taglia in montaggio tutte le urla a metà e spinge al dialogo protagonisti e spettatori, così come all’ascolto e alla comprensione. Una piccola perla confezionata come un film classico di Woody Allen di metà anni ’80, anche nella fotografia ruvida e leggermente desaturata, con un cast stellare in stato di grazia che meriterebbe un premio corale. Un’opera deliziosa, arguta e profonda per palati raffinati – e padri, figli e nipoti in cerca di un posto nel mondo, come nella propria famiglia.

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