till recensione

Mamie Till impedì all’America di voltarsi dall’altra parte. Costrinse il Paese a guardare il volto sfigurato di suo figlio Emmett, linciato a soli quattordici anni nel Mississippi del 1955, dove da Chicago si era recato in vacanza per qualche giorno. E perché? Per essere un preadolescente di colore che aveva osato alzare gli occhi verso la padrona di un emporio…

 

Till, la storia vera

A tre anni dal potente Clemency che vedeva protagonisti Alfre Woodard e Aldis Hodge, la regista Chinonye Chukwu porta sul grande schermo una delle storie più agghiaccianti che riguardano il razzismo e la violenza negli nel sud degli Stati Uniti. Per farlo si affida a un’idea di messa in scena molto “classica”, che sfrutta con solidità e sapienza gli stilemi del melodramma in costume. Una scelta estetica che punta esplicitamente ad abbracciare un maggior numero possibile di spettatori, i quali si trovano di fronte un film la cui confezione si presenta scena dopo scena sempre inappuntabile, dalla fotografia al montaggio, dai costumi alla colonna sonora molto toccante di Abel Korzeniowski. Una scelta forse fin troppo leccata e “conservativa” da parte della cineasta e della produzione? Sarebbe piuttosto riduttivo affermarlo, poiché la Chukwu costruisce Till adoperando tre elementi principali che le permettono di elevare lo spessore del suo film.

La violenza raccontata con pudore

Prima di tutto la regista non si tira indietro quando c’è da mostrare l’orrore della violenza e dell’odio, ma riesce a farlo senza mai indulgere nello stesso al fine di creare un effetto scioccante. Anche nei momenti in cui Till si fa maggiormente esplicito, come nelle sequenze del riconoscimento del cadavere da parte di Mamie e in quella del funerale con la bara aperta, la regia adopera un pudore contenuto di ammirevole lucidità, ed anche quando le immagini si fanno forti non si ha mai la sensazione che vi sia alcuna gratuità in esse. E questo è un pregio enorme di Till.

La seconda, grande forza del lungometraggio sta nella sceneggiatura scritta dalla Chukwu insieme a Keith Beauchamp e Michael Reilly: sfruttando uno sviluppo drammaturgico tanto solido quando prevedibile, lo script offre però elementi di analisi e di discussione estremamente contemporanei, che si rivolgono alla situazione odierna dell’America almeno quanto lo fanno con quella del passato. Ed ecco allora che frasi come “It wasn’t just two men with a gun…”, oppure il semplice gesto di un testimone nero che osa puntare il dito contro un imputato bianco, diventano fortemente emblematiche, e fanno di Till una riflessione dall’impatto emozionale ma anche intellettuale difficili da ignorare.

La forza nella sceneggiatura

Altra finissima scelta di scrittura si rivela quella di scegliere come “antagonista” psicologico e morale del personaggio protagonista non tanto gli assassini del ragazzo quanto la donna che lo ha accusato e consegnato ai suoi aguzzini. Ecco che allora Till scivola mirabilmente verso uno studio tutto o quasi al femminile, quello che vede una donna chiedersi senza successo come un’altra donna (e madre) abbia potuto essere capace di tanto odio nei confronti di suo figlio. I momenti in cui Mamie osserva il volto inespressivo della “vittima” Caroly Bryant (una coraggiosa Haley Bennett) sono probabilmente i più dolorosi dell’intero lungometraggio. E questo ci porta alla terza carta vincente, ovvero la prova maiuscola della protagonista Danielle Deadwyler.

La capacità di trattenere dentro una compostezza quasi altera le emozioni del personaggio, lasciandole poi trasparire in poche ma precise scene aumentandone la veridicità, le consente di sfruttare col passare delle sequenze una performance dotata di una potente coerenza interna. La presa di coscienza di Mamie Till viene caratterizzata dalla Deadwyler con una precisione certosina, con un lavoro sul linguaggio del corpo esemplare, qualità che affievoliscono anche alcune ridondanze proposte dal lungometraggio soprattutto nei primi quindici, venti minuti.

Se Till è un’opera migliore e in qualche modo diversa rispetto a questo tipo di cinema storico-civile che cerca anche il consenso del pubblico più vasto, il merito va anche condiviso con la performance molto calibrata di un’attrice che meriterebbe di concorrere nella stagione delle nomination e dei premi che si sta avvicinando. Till sceglie di raccontare una vicenda dolorosa e terribile, dimostra di sapere molto bene come farlo e non si vergogna di voler far arrivare la propria storia – e i messaggi che essa contiene  – a quanti più spettatori possibile. E a nostro avviso è più che giusto così.

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