Under the Open Sky: la recensione del film di Miwa Nashikawa #RFF15

Presentato alla Festa del Cinema di Roma il nuovo film dell'acclamata regista giapponese, basato sul romanzo Mibuncho.

Under the open Sky recensione

Ci è sempre stato insegnato che il nostro è un mondo dove chiunque ha diritto ad una seconda possibilità, ma è davvero così? La regista giapponese Miwa Nashikawa si pone questo importante quesito nel realizzare il suo nuovo film Under the Open Sky, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Allieva del grande Hirokazu Kore’eda (Un affare di famiglia), nel corso della sua filmografia ha sempre raccontato storie particolarmente personali. Per la prima volta qui si affida invece ad un romanzo dal titolo Mibuncho, opera del noto scrittore Saky Ryuzo.

 

Questo è basato sulla vera figura di un detenuto e sulla sua difficile vita una volta uscito di prigione. Grazie a tale storia, adattata al presente, la regista ha modo di esplorare nuove tematiche. Queste ruotano a loro volta intorno ad un ritratto dell’odierna società giapponese, con i suoi pregi e i suoli limiti. Il racconto che ne deriva è delicato come una carezza, pur raccontando una situazione drammatica, da cui si possono generare numerose riflessioni. Un’abilità, questa, che la regista dimostra di aver ereditato dalle sue numerose collaborazioni con i grandi maestri del cinema giapponese.

La storia qui raccontata ha per protagonista Mikami (Yakusho Koji), ex esponente dell’organizzazione criminale Yakuza. Dopo 13 anni di prigione per omicidio, egli è ora un uomo libero, pronto a riconquistare la sua vita. Per lui ha però inizio un difficile inserimento nella società, dove fatica a trovare un lavoro stabile. Causa di ciò è anche il suo codice di condotta, profondamente radicato nelle regole alle quali apparteneva. Queste risultano però ormai appartenenti ad un mondo in via di estinzione, e non si adattano all’ordinato sistema di assistenza sociale del Giappone. Catapultato in un mondo che non capisce, Mikami dovrà allora riuscire a controllare la sua natura impulsiva, fidandosi di quanto vogliono aiutarlo davvero.

Under the Open Sky: una prigione a cielo aperto

La società giapponese è cambiata in modo radicale negli ultimi decenni, e spesso ad una velocità quasi spaventosa. Chi non riesce a stare al passo, e rimane indietro, sembra così essere destinato ad una vita di fatiche e di stenti per cercare il proprio posto in tutto ciò. A tali cambiamenti si aggiunge la sempre più evidente indisposizione ad accettare coloro che necessitano di una seconda possibilità. Da qui parte la vicenda del protagonista di Under the Open Sky, il quale sembra uscire da una prigione per entrare in una realtà che la ricorda molto, pur non prevedendo confini spaziali. L’ironico titolo del film suggerisce infatti il senso di oppressione provato da Mikami pur trovandosi finalmente “libero”.

Nel corso del film egli si trova a doversi relazionare con una serie di personaggi e procedure che evidenziano la sua difficoltà a dialogare con il mondo contemporaneo. Dalle offerte di lavoro fallite ai pregiudizi nei suoi confronti, dalla stringente burocrazia ai deludenti sussidi statali, tutto sembra cospirare contro il suo reinserimento nella società. La sua situazione viene resa ancor più esplicita tramite una composizione delle inquadrature che lo pone spesso ai margini, ma anche da situazioni più concrete come la semplice difficoltà di guidare un automobile.

La verità è che Mikami appartiene ad un mondo che sempre più fa parte del passato. Più volte è infatti possibile imbattersi in dialoghi e personaggi che manifestano tale malinconica consapevolezza. Far parte della Yakuza è una responsabilità che pochi sono ancora disposti ad assumersi. Quel mondo di attività illecite lascia sempre più spazio ad una realtà di uffici, pratiche da compilare e svaghi di vario tipo. Nel dare la sua personale risposta al quesito alla base del film, la regista non manca di evidenziare come tale trasformazione della società non sia meno soffocante di quella a cui il protagonista apparteneva.

Under the open Sky Miwa Nashikawa

Under the Open Sky: la recensione

Ancora una volta i registi giapponesi dimostrano una grande capacità nel raccontare in modo semplice ma mai banale la realtà del loro paese. Allo stesso tempo, le loro storie si dimostrano sorprendentemente universali. Con Under the Open Sky, la Nashikawa aggiunge un nuovo tassello a tale racconto nazionale, dimostrando una delicatezza nei toni e nell’atmosfera capace di emozionare con poco. Vi sono infatti piccoli gesti e parole in grado di racchiudere il cuore più profondo del film. Nel corso delle due ore, la drammaticità di quanto accade al protagonista viene così dissimulata dall’interesse verso la sua fragilità umana.

All’interno di questo racconto non mancano possibilità e strade non prese, come quella relativa alla ex compagna del protagonista. Se da un lato queste sembrano caricare eccessivamente il film, dall’altra ribadiscono ulteriormente come certe cose perse, possono rimanerlo per sempre. Proprio come un film che tenta di rappresentare al meglio la semplicità della vita, Under the Open Sky commuove e diverte, ponendo anche importanti riflessioni. E se anche non tutti i suoi elementi sembrano essere al loro posto, pur nei suoi difetti questo riesce ad offrire un appassionante spaccato di vita, troppo spesso sottovalutato.

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Gianmaria Cataldo
Laureato in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è un giornalista pubblicista iscritto all'albo dal 2018. Da quello stesso anno è critico cinematografico per Cinefilos.it, frequentando i principali festival cinematografici nazionali e internazionali. Parallelamente al lavoro per il giornale, scrive saggi critici e approfondimenti sul cinema.
under-the-open-sky-recensione-miwa-nashikawa-rff15Con Under the Open Sky, la Nashikawa dimostra una delicatezza nei toni e nell'atmosfera capace di emozionare con poco. Vi sono infatti piccoli gesti e parole in grado di racchiudere il cuore più profondo del film. Nel corso delle due ore, la drammaticità di quanto accade al protagonista viene così dissumulata dall'interesse verso la sua fragilità umana.