C’era una volta la creatività. Invece ora non si sa bene che fine abbia fatto, se sia morta e sepolta oppure solo andata in letargo in attesa di risvegliarsi. Fatto sta che, da anni ormai, assistiamo al proliferare di sequel, prequel, remake e reboot di storie ispirate alle fiabe classiche. Ha iniziato la Disney – e come poteva essere altrimenti? – che nel giro di pochissimo ha praticamente annunciato il remake del suo intero catalogo di classici. Ma anche altre case cinematografiche sono al lavoro su kolossal fiabeschi: tra gli ultimi annunci troviamo La Sirenetta della Universal e un film incentrato su Esmeralda del Gobbo di Notre Dame. Se, da una parte, ormai la reazione è diventata una sorta di risata isterica a ogni nuovo annuncio, dall’altra viene spontaneo chiedersi: perché tutti ora?, perché tutti insieme?, perché proprio la fiaba?, insomma: perché?

 

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Facciamo quindi un breve excursus storico, per capirci meglio. Nel 2009 i Walt Disney Animation Studios tentarono il tutto per tutto con La Principessa e il Ranocchio, il film che doveva essere il ritorno della fiaba, del musical e dell’animazione a mano dopo anni di flop, errori e incertezze di stile. La pellicola non riscosse il successo aspettato, e subito dopo fu decretata la morte della fiaba. Al pubblico le fiabe non piacciono più, dissero i dirigenti, bisogna tentare con qualcos’altro. C’era però un programma avviato, c’erano altri film che ormai erano troppo in là con la produzione e che seguivano il revival iniziato da La Principessa e il Ranocchio: Rapunzel, prima di tutto, poi La Regina delle Nevi, ma anche numerosi live action che volevano rilanciare personaggi “storici”, come Alice In Wonderland, Prince of Persia, Tron: Legacy o I Muppets. Era troppo tardi per ritirarli; molti di essi sarebbero usciti proprio l’anno seguente. Bisognava rischiare.

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Alcuni di quei titoli effettivamente furono flop, ma Rapunzel e Alice In Wonderland stupirono le aspettative. Il primo godette di un passaparola formidabile che riuscì a sostituire una campagna marketing abbastanza scadente, il secondo era un film di Tim Burton e quindi giocava su un terreno abbastanza sicuro. Improvvisamente era di nuovo tempo di fiabe. Appena un anno dopo, l’affermazione dei dirigenti non era più valida. Macché, il pubblico le vuole eccome, le fiabe, però le vuole in CGI e rivisitate. Insomma, devono essere fiabe che però non sembrano fiabe. In sostanza, era un periodo di insicurezza stilistica: lo studio era alla disperata ricerca di una formula che potesse funzionare e che potesse farlo ritornare allo splendore dei bei vecchi tempi. E la soluzione che trovarono fu: prendere qualcosa di vecchio e creare qualcosa di nuovo. Peccato che nel giro di cinque anni la situazione sia un po’ sfuggita di mano, e la Disney abbia ormai ripescato dalla sua ricca lista di classici i personaggi più disparati per riportarli sul grande schermo. Da Maleficent alla Bella e la Bestia, da Cenerentola a Mulan, passando per Pinocchio, La Spada nella Roccia, Aladdin, Peter Pan, Dumbo e persino Fantasia e Winnie the Pooh (sì, in live action).

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La qualità di questi film è innegabile, ma del resto non è mai stato questo il problema. Con un buon budget e con i talenti giusti, che la Disney dimostra sempre di saper azzeccare, è naturale che il risultato sia un bel film. Il problema non è tanto il prodotto in sé, quanto la politica, e quindi l’idea stessa di volerlo fare. Siamo in un’epoca in cui si tende ad andare sul sicuro, non perché la creatività sia morta (e qui rispondiamo al quesito iniziale), ma perché non è più conveniente investire sulla creatività. Walt Disney non era contrario ai sequel, ma era un artista in grado di saper guidare i gusti del pubblico. A chi dalla platea chiedeva “fai un altro film con i sette nani”, Walt diede Pinocchio. Non fu un successo immediato, non quanto Biancaneve. Sarebbe stato molto semplice, allora, in un momento di difficoltà economica, realizzare il tanto agognato secondo film con i nani e accontentare il pubblico. Invece Walt si lanciò in un progetto che sarebbe stato un flop ancora più grande, Fantasia. Rischiò la bancarotta, è vero, ma sul lungo termine la storia ha dato ragione a lui: Pinocchio e Fantasia erano capolavori. Erano altri tempi, certo. Probabilmente Walt oggi avrebbe fatto Biancaneve 2.

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Eppure questo è un errore che potrebbero fare molti studi, ma che la Disney non dovrebbe concedersi, semplicemente perché lo ha già commesso in passato. Era il 1994 quando Rich Ross ordinava ai DisneyToon Studios la produzione di sequel a basto costo dei classici Disney. All’inizio la qualità era abbastanza alta, e ne venivano realizzati uno o due all’anno, ma presto la produzione si intensificò. Fu un’operazione che probabilmente contribuì a salvare economicamente l’azienda (che a quell’epoca si reggeva praticamente solo sugli incassi della Pixar), ma che col senno di poi causò un danno di immagine enorme agli studi principali. Il pubblico non era preparato: non si rese conto che quelli erano film a basso costo e per giunta realizzati da un altro studio. I fan si aspettavano molto di più dalla Disney, che qualche anno prima aveva realizzato grandi capolavori come Il Re Leone. Ne risentì tutta la produzione, in tutti i settori, e questa enorme crisi riuscì a risolversi definitivamente solo nel 2010, proprio grazie ai due film che abbiamo citato all’inizio: Rapunzel e Alice in Wonderland. L’ironia della sorte è che ci stanno ricascando di nuovo e non se ne sono neanche accorti.

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Cosa possiamo fare noi, una volta capito il perché? Purtroppo, poco e niente. La formula ormai è stata consolidata e sicuramente non ci sarà un cambiamento di rotta, almeno finché l’hype per questo filone non scemerà spontaneamente. Un buon inizio, comunque, sarebbe iniziare a distinguere tra progetti che possono dirci davvero qualcosa in più e progetti che non hanno ragione d’essere se non quella di vendere il merchandise. Lamentarsi su Facebook dell’ennesimo remake è liberatorio (ne so qualcosa), ma abbastanza inutile. Selezionare e scegliere cosa vedere e cosa no è l’unica vera “arma” che abbiamo come spettatori.

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