Col senno di poi, è il 2020. La tagline di Eddington basterebbe da sola a chiarire l’intento del film di Ari Aster presentato in concorso a Cannes 78: non solo un ritorno a un anno cruciale, ma un tentativo di rileggerlo alla luce del presente, con il peso di ciò che è rimasto, di ciò che è cambiato e di ciò che, troppo spesso, non abbiamo voluto vedere. Dopo l’esperimento divisivo di Beau ha paura, il regista di Hereditary e Midsommar approda per la prima volta in concorso a Cannes con un film che abbandona le derive oniriche per affrontare di petto la realtà, anche se – come vedremo – lo fa con più ambizione che lucidità.
Un’America a pezzi
Ambientato nell’immaginaria cittadina di Eddington, nel New Mexico, durante i primi mesi della pandemia, il film mette in scena lo scontro tra due figure emblematiche: lo sceriffo Joe Cross (Joaquin Phoenix), scettico, apatico, emotivamente imploso, e il sindaco progressista Ted García (Pedro Pascal), ligio alle regole e determinato a controllare l’emergenza. Sullo sfondo, una comunità già logorata si frattura ulteriormente tra paranoie complottiste, estremismi sanitari, proteste Black Lives Matter e fanatismi religiosi, incarnati anche dal personaggio interpretato da Austin Butler.
La casa dello sceriffo, dove vivono sua moglie Louise (Emma Stone), depressa e dipendente dai guru social, e una suocera completamente risucchiata dalle teorie cospirazioniste, è il microcosmo di un’America familiare e inquietante: è lì che Aster riconduce il suo tema fondante, quello della famiglia come radice del trauma e specchio di una nazione che implode.
Una costellazione di tensioni (troppo) note
Eddington non racconta nulla che non conosciamo già. E in fondo è questo il punto. Aster non cerca soluzioni, non costruisce visioni alternative. Non è un film che accompagna lo spettatore alla comprensione: è una cronaca stonata dell’oggi, una spirale che confonde invece di chiarire. Come se la realtà – già di per sé caotica – venisse amplificata fino a farsi caricatura. La satira è dichiarata, ma il bersaglio resta spesso sfocato. Si deridono tanto i “woke” e i negazionisti quanto i paladini della correttezza ideologica. Ma nel tentativo di rappresentare tutti i fronti, si finisce per svuotare ogni discorso di senso.
Non a caso, verso metà film, l’ironia cede il passo alla tensione pura, e Eddington vira verso il thriller psicopolitico: violenza crescente, paranoia collettiva, e una sequenza – sulle note di “Firework” di Katy Perry – destinata a diventare cult, anche se forse troppo calcolata per lasciare il segno.
Una riflessione fin troppo disordinata (ma veritiera?)
Ari Aster ha il merito, raro oggi, di non cercare vie di fuga nel genere. Filma il presente senza filtri, con telefoni, Zoom, Instagram Live e notifiche continue che scandiscono la vita dei personaggi. Non c’è nostalgia, né comfort visivo: la tecnologia è parte integrante dell’immaginario e dello stile, tanto da diventare quasi invasiva. Ma in questo caos visivo e narrativo, a tratti insostenibile, si intravede un’urgenza sincera, anche se irrisolta.
Phoenix regge l’intero film sulle spalle: il suo Joe Cross, incapace di decidere, sempre in ritardo sugli eventi, finisce per incarnare l’inefficacia della leadership contemporanea. A tratti sembra Joker di nuovo, ma privato di scopo sociale: solo un uomo annientato dal fallimento personale e collettivo. Emma Stone e Austin Butler sono invece relegati a ruoli troppo sacrificati per emergere davvero. Ed è un peccato, considerando quanto entrambi abbiano dimostrato altrove di saper restituire sfumature in personaggi borderline.
Il confronto mancato con The Curse (con protagonista Emma Stone)
Nel tentativo di mettere in scena un’America divisa, nevrotica, post-pandemica, Eddington sembra avvicinarsi a quella che è, finora, l’opera più lucida e spietata sull’argomento: The Curse. La serie ideata da Nathan Fielder e Benny Safdie e in cui, curiosamente, recita proprio Emma Stone, riesce là dove il film di Aster fallisce: prendere un contesto riconoscibile e costruirci sopra un linguaggio nuovo, capace di raccontare le dinamiche del privilegio, dell’incomunicabilità e della manipolazione con chirurgica precisione. A confronto, Eddington appare come una costosa elaborazione collettiva del trauma, senza la distanza analitica e la forza formale necessarie per trasformarlo in racconto. Dove The Curse spinge lo spettatore a mettersi in discussione, Eddington si limita a riproporre il caos da cui tenta di emergere.
Diagnosi senza cura
Eddington non è una grande riflessione sul nostro tempo. Non è nemmeno un film pienamente riuscito. È piuttosto una constatazione impotente, quasi disperata, del fatto che la frattura è ormai insanabile. Come dice una battuta di Sirat, notevole titolo del concorso di questa Cannes: «È la fine del mondo già da tanto tempo». Oliver Laxe, tuttavia, sa incorniciare quella fine con poesia e chiarezza. Ari Aster, invece, finisce per confonderla ancora di più.
Ma forse anche questo ha un senso. Forse Eddington va accettato per quello che è: un film spartiacque, uno dei primi a cercare di raccontare l’America post-COVID per ciò che è, senza finzioni, senza nostalgia, e senza alcuna illusione di salvezza. Solo caos, paura e un lungo, inevitabile silenzio.
Eddington
Sommario
Con Eddington, Ari Aster abbandona le atmosfere oniriche per confrontarsi direttamente con la realtà del 2020, raccontando un’America spaccata dalla pandemia e dalle sue derive sociali. Il film, caotico e disordinato, punta più a testimoniare che a spiegare, restituendo il presente con satira incerta e toni da thriller politico. Nonostante l’ambizione, la narrazione risulta confusa e carente di una vera visione d’insieme. Resta un’opera urgente ma incompiuta, più diagnosi del malessere che tentativo di comprensione.