David O. Russell torna sul grande schermo con Amsterdam, ben 7 anni dopo Joy, pronto a conquistare una standing ovation da parte del pubblico. Il film è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public, e sarà nelle sale dal 3 novembre.
L’hype costruitosi attorno alla pellicola, grazie soprattutto al parterre di attori proposto dal regista, ha lasciato con il fiato sospeso fin’ora e con la speranza che l’attesa valesse le aspettative. Fra i produttori compare il nome di Christian Bale, protagonista principale della storia nonché voce narrante.
Amsterdam, la trama
New York, 1933. Il dottor Burt Berendsen (Christian Bale) e Harold Woodman (John David Washington) sono veterani della Prima Guerra Mondiale, legati da una forte amicizia fraterna. L’arrivo nella loro vita di Liz Meekins (Taylor Swift) sconvolge il già precario equilibrio dei due, i quali nel tentativo di scoprire cosa abbia causato la morte del padre di lei, si trovano invischiati in un omicidio di cui sono i primi sospettati.
È ora il 1918. Un flashback riporta indietro nel tempo, al periodo della Guerra. Dopo essere stati feriti in Belgio, i due vengono curati dall’infermiera Valerie Voze (Margot Robbie), con la quale instaurano un rapporto molto viscerale. I tre si trasferiscono ad Amsterdam, città in cui trascorrono il periodo più bello della loro vita, finché lei non sparisce nel nulla.
Un salto temporale riporta agli anni ’30. Dopo essersi ricongiunti con Valerie, il trio di amici cerca di venire a capo dell’omicidio sia del Generale Meekins che di sua figlia Liz, grazie all’aiuto di Gil Dillenbeck (Robert De Niro). Ma nel tentativo di farlo, si scontreranno con una forza molto più grande di loro: i complotti politici.
Una trama fragile per un cast stellare
90 grammi di crime comedy, un pizzico di slapstick, un po’ di noir e la “prorompenza” della storia del dopoguerra: ecco cos’è Amsterdam. Una pellicola ibrida, che nell’intento di far coesistere i generi di cui si dichiara pregna, rigurgita un prodotto plastificato e poco sviluppato. Per portare in sala un film all’apparenza valido, O. Russell ha “assoldato” un team di star dal grande calibro. Come pedine di un gioco li ha poi sparpagliati in una storia senza un capo né una coda, non dando loro un background approfondito né tantomeno un filo narrativo ben costruito. Ed ecco quindi il principale problema: una trama sconnessa portata avanti da personaggi spezzati a metà.
Fra sguardi in camera che rompono la quarta parete, una patina vintage che avvolge tutto il filmico, e i temi del razzismo e della dittatura europea che il regista tenta di amalgamare nel migliore dei modi, Amsterdam si perde nel vano tentativo di diventare il nuovo blockbuster dell’anno. Quel grandeur cinematografico che poteva quindi essere restituito – grazie anche all’aver “commissionato” un cast di tal portata per darne ulteriore spessore – rimane un’illusione. O meglio, un sogno.
L’unico elemento positivo è la nota sentimentale e affettiva del film. L’amore di Harold e Valerie che nonostante il periodo storico sfavorevole decidono ugualmente di iniziare una relazione alla luce del sole e la partnership fra Burt, Valerie e Harold che va al di là di qualsiasi pregiudizio, omicidio e dinamica politica. È perciò questa l’unica vittoria di Amsterdam: portare in scena un’amicizia solida, che non si piega alle distanze oltreoceano e soprattutto allo scorrere del tempo.
Burt, il narratore onnisciente di cui non si aveva bisogno
La prima regola aurea – come dice Robert McKee – applicabile sia nella stesura di un romanzo che di una sceneggiatura, è mostrare senza dover spiegare. O. Russell, invece, compie un atto di distruzione verso quell’artificio narrativo, sbriciolando quel poco di interesse investigativo che la trama stava faticando a trasmettere dopo l’omicidio di Liz Meekins. Testo e sottotesto, in un lungometraggio ben riuscito, sono la chiave necessaria affinché esso abbia un senso: in questo caso il regista sembra aver fatto di tutto per annientarli entrambi. Una scena non parla mai di ciò di cui sembra parlare, o non sarebbe autentica. C’è sempre altro oltre ciò che viene mostrato ed è l’unica arma per farla concretamente funzionare.
Il sottotesto, che funge da contraddizione al testo, è il meccanismo che spinge lo spettatore a porsi domande e partecipare alla dinamica. In Amsterdam, però, gli attori non possono compiere quella performance “multistratificata” indispensabile per la scoperta di quelle verità insite nelle battute. I comportamenti e i dialoghi dei protagonisti sui generis vengono spiegati ad ogni beat in maniera macchinosa dalla voce narrante del Burt di Christian Bale. Come se senza di essi la storia non venisse capita.
Sottolineare questo o quell’atteggiamento, questa o quella parola, invece di farla vedere grazie a stratagemmi, turning point e sequenze più dettagliate, non solo rallenta il progredire della storia, ma blocca la fruizione. Sapere tutto, come il narratore onnisciente di un libro, conduce alla noia e a volte anche alla frustrazione. E qui c’è solo il disperato bisogno di giungere ai titoli di coda il più in fretta possibile e senza dover assistere ad altri scempi.
Amsterdam si rivela perciò una pellicola di serie b, su cui è stato costruita attorno una grande propaganda per sopperire, probabilmente, ad una sua mancanza di contenuto. L’errore di O. Russell è stato non comprendere che a volte è meglio – anzi necessario – farsi da parte.