Last Shift: recensione del film di Anthony DiBlasi

Last Shift recensione film

Last Shift è il film del 2014 diretto da Anthony DiBlasi con Juliana Harkavy, Joshua Mikel, J. LaRose.

 

La trama di Last Shift

Jessica Loren è un giovane agente di polizia alla quale viene assegnato, come primo incarico, di vigilare per un’intera nottata in una stazione di polizia in procinto di essere chiusa l’indomani mattina, la stessa stazione nella quale alcuni anni prima suo padre era stato brutalmente massacrato assieme ad altri colleghi durante la rivolta di un gruppo di detenuti affiliati ad un’oscura setta satanica. La ronda notturna inizia senza particolari problemi ma ben presto cominciano ad accadere alcuni strani avvenimenti, tra cui un misterioso vagabondo che si presenta alla porta della centrale e inquietanti apparizioni che fanno capire alla giovane Jessica di non essere del tutto sola, come se qualcuno o qualcosa la stesse aspettando per dare il via ad un terribile e irreale gioco al massacro.

L’analisi di Last Shift

A una prima confusa e distratta visione Last Shift potrebbe sembrare niente di più di un grottesco remake in chiave ortorifico-soprannaturale del capolavoro di John Carpenter Distretto 13 – Le brigate della morte, poiché le suggestioni narrative paiono coincidere più che evidentemente: un protagonista isolato nel mezzo nel nulla il quale può contare solo sulla propria forza di volontà; una minaccia incombente (qui di matrice dichiaratamente fantasmatica) che vuole scardinare un precario equilibrio; un’atmosfera da trincea in assedio degna di uno dei migliori war movies di sempre.

Ebbene, espletate le più che necessarie chiarificazione riguardo l’indubbio debito metacinematografico della pellicola di Anthony DiBlasi dal masterpiece carpenteriano va oltremodo appuntato che, da qui in avanti, il racconto procede sulle proprie solide e ben piantate quattro zampe, delineando una narrazione tesa e ben congeniata nella quale si mescolano numerose suggestioni provenienti da ben altri pozzi di genere, tra le quali vanno segnalate le reminiscenze esoterico-sataniche di Sinister (2013) (tra cui spicca la ripresa del dispositivo filmico come portale di accesso del mondo demoniaco) così come le più nobili strizzate d’occhio alle inquietanti apparizioni di Il sesto senso (1999).

La grande venerazione di DiBlasi per l’universo mostruoso e cabalistico di Clive Baker, ottimamente dimostrato in quel piccolo gioiellino di Dread (2012) e con esiti molto meno felici nel pessimo Cassadaga (2011), si fonde qui con l’imprinting di un ghost movie che unisce alle canoniche apparizioni ectoplasmatiche in salsa psicopatica (il tòpos dell’impossibilità di distinguere fra sogno e realtà in stile Gotika) la formula basica dello slasher che prevede la concentrazione degli eventi in un unico luogo claustrofobico dove avviene la mattanza, in una forma perversa e postmoderna del celebre kammerspiel tedesco infarcito di gore all’ennesima potenza.

Qui in realtà molti di questi dettami classici vengono disattesi, iniziando dall’ambientazione in interni della stazione di polizia, perennemente abbagliata da una fredda e asettica luce al neon che fa risaltare il bianco perlato delle pareti, così come la presenza di una un’unica protagonista che si trova a dover gestire da sola l’intera schiera di oscure presenze scaturite da un passato tutt’altro che remoto e pronte a ghermirla nei suoi incubi più che nella vita reale (come a dire, meno Jason e più Freddy Kruger).

Ma è proprio questo uso anticonvenzionale dei canoni figurativi del cinema di tensione che accresce ulteriormente la natura inquietante della narrazione, in particolare se si tiene a mente la nutrita schiera di riferimenti nonsense e piccoli dettagli, spesso insignificanti ma indubbiamente disturbanti, che vengono disseminati progressivamente nel coso della vicenda e che delineano per tutti gli ottantasette minuti del girato un’atmosfera malsana che cresce come nebbia e si deposita su ogni inquadratura, ritardando sapientemente l’escalation di terrore finale e preferendo puntare su una lenta e inesorabile discesa nell’incubo.

Un lercio senzatetto dall’aspetto tutt’altro che rassicurante si presenta alla porta della centrale senza dire una parola, urinando sul pavimento per poi esplodere in un’improvvisa ondata di aggressività subito sedata dalla sconcertata Jessica. Una serie di telefonate di richiesta di soccorso giungono alla centrale malgrado la linea sia già stata deviata e tutte riportano la voce allarmata di una ragazza che afferma di essere stata rapita.

Strane e criptiche scritte appaiono sui muri accompagnate da televisori (un classico ormai!) che mandano in onda stralci di interrogatori ai sadici membri di una setta di adorazione del demonio. Voci e sussurri riempiono ogni angolo non toccato dall’abbacinante bagliore delle lampade artificiali, rendendo il tutto più strano di quanto non sia. Tutti ingredienti miscelati con sapiente perizia e pazienza, sorretti da una serie di suggestioni che rinunciano alla presenza massiccia di computer graphic (almeno per i primi tre quarti di film) per lasciare al potere del silenzio il valore evocativo.

Interessante risulta il modo con cui la discreta sceneggiatura di Scott Poiley decide di trattare la componente demoniaca ed esoterica della vicenda, partendo dall’idea di evocare l’orami triste tradizione, per lo più tutta americana, delle sette di adorazione del maligno che affondano le loro radici negli anni ’60 all’interno di celebri confraternite “di sangue” sul modello dell’iconica Manson Family, in questo caso infarcite con un patrimonio figurativo che si estende dal demone Pazuzu de L’Esorcista (1973) fino alla già citata influenza ancestrale di Sinister, reggendo bene la prova della credibilità almeno fino a quando non viene il delicato momento di mostrare ciò che fino ad ora era stato solo suggerito.

Se da una parte risultano molto riuscite e felici alcune trovate visive che possono essere rintracciate in The Gallows (2015), dall’altra la messa in scena delle apparizioni demoniche e della lotta fra Bene e Male finisce forse per cadere troppo nel ridicolo, eccezion fatta per l’ottimo finale che non si risparmia una dose di inventiva e di sorpresa davvero lodevole.

Juliana Harkavy, reduce dalle ottime comparsate televisive in Graceland e The Walking Dead, potendo inoltre contare su una discreta carriera cinematografica alle spalle, regge praticamente da sola l’intero coso della pellicola, dimostrandosi più che dignitosa e capace nel dare corpo ai turbamenti e alle terribili vicissitudini affrontate da una coraggiosa poliziotta che si trova a vivere un inaspettato battesimo del fuoco in puro stile luciferino, dovendo affrontare tutta da sola le leggi di un mondo sovrannaturale che non accettano né prigionieri né sconti di pena. Le è la start e la final girl, lei è la scream queen su cui o spettatore riversa le sue ansie e speranze. Lei è l’unica con cui potersi identificare in qualche modo. In alternativa ci sono pur sempre demoni e fantasmi!

Last Shift appare a conti fatti come un dignitoso e interessante prodotto di genere, sicuramente molto più serio, intelligente e curato di numerose produzioni ad alto budget di questi ultimi tempi, un prodotto che, seppur dovendosi confrontare con problemi fisiologici non indifferenti, finisce tutto sommato per risultare più che discreto e gradevole anche ai palati più raffinati e cultori dell’horror puro. Una pellicola che sa bene i propri limiti e ne fa una virtù soprattutto nel momento in cui si è chiamati a delineare l’orrore e l’angoscia attraverso il suggerito piuttosto che il detto, così come l’hitchockiana memoria ci ha insegnato a suo tempo.

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Matteo Vergani
Laureato in Linguaggi dei Media all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, studiato regia a indirizzo horror e fantasy presso l'Accademia di Cinema e Televisione Griffith di Roma. Appassionato del cinema di genere e delle forme sperimentali, sviluppa un grande interesse per le pratiche di restauro audiovisivo, per il cinema muto e le correnti surrealiste, oltre che per la storia del cinema, della radio e della televisione.
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