47 Ronin, la spiegazione del finale di Keanu Reeves

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Nel panorama dei blockbuster fantasy, 47 Ronin è un caso particolare: rilegge in chiave spettacolare la leggenda più famosa del Giappone feudale — l’episodio di Akō — innestandole stregonerie, demoni Tengu e un eroe outsider interpretato da Keanu Reeves. Il risultato è un racconto d’onore e vendetta che conserva il nucleo morale della storia originale, pur piegandolo alle esigenze del cinema d’avventura.

Il finale, tragico e rituale, lascia nello spettatore domande tutt’altro che banali: perché i ronin scelgono la morte proprio dopo aver compiuto la loro missione? Qual è il senso del sacrificio di Kai e del suo amore impossibile per Mika? E in che modo la versione hollywoodiana dialoga con il codice dei samurai (bushidō) e con la memoria collettiva giapponese? Andiamo con ordine.

Scopri anche la storia vera che ha ispirato 47 Ronin, una delle vicende più leggendarie del Giappone feudale.

Trama di 47 Ronin

Nel dominio del signore Asano (Min Tanaka), viene accolto Kai (Keanu Reeves), mezzosangue allevato dai Tengu e guardato con sospetto dai samurai, in primis dal capo delle guardie Ōishi (Hiroyuki Sanada). L’equilibrio del feudo è minato dalla strega Mizuki (Rinko Kikuchi), al servizio del rivale Kira (Tadanobu Asano), che strega Asano inducendolo ad “attentare” all’ospite: secondo la legge, il signore è costretto al seppuku e i suoi uomini diventano ronin (samurai senza padrone). Mika (Kō Shibasaki), figlia di Asano e promessa a Kai, viene promessa in sposa a Kira per sancire il nuovo potere.

Passa un anno. Ōishi, imprigionato e umiliato, riemerge più determinato: riunisce 47 fedelissimi, inclusi Kai, e orchestra una missione impossibile per liberare Mika e vendicare Asano. Travestimenti, magie, creature del folclore e duelli scandiscono la risalita del gruppo verso il castello di Kira, in una progressione che alterna azione e mito.

Cosa succede nel finale del film

Keanu Reeves in 47 Ronin
Keanu Reeves in 47 Ronin. Foto di Frank Connor – © 2013 – Universal PIctures

Nel terzo atto, i ronin irrompono nella roccaforte. Kai affronta Mizuki, che manipola la realtà con illusioni serpentiformi: la sconfitta della strega spezza l’incantesimo che sosteneva il potere di Kira. Intanto Ōishi combatte il rivale e lo decapita, compiendo l’atto simbolico della vendetta rituale. Liberata Mika, la compagnia non fugge: si consegna al lo Shōgun (Cary-Hiroyuki Tagawa). Hanno ristabilito la giustizia verso il loro signore, ma hanno violato la legge uccidendo un nobile. Il verdetto è solenne: i 47 potranno morire con onore tramite seppuku; Mika, sopravvissuta, guiderà il lutto del feudo. L’ultimo sguardo tra Kai e Mika suggella un amore che non può realizzarsi nel mondo degli uomini, ma che trova compimento nella scelta sacrificale.

Il sacrificio dei ronin e il senso dell’onore

Il cuore del finale sta nel paradosso etico tipico della leggenda di Akō: la fedeltà al proprio signore (giri) impone la vendetta, ma la legge dello Stato vieta l’omicidio. I ronin accettano entrambe le verità: compiono il dovere personale e assumono la pena, per non scalfire l’ordine pubblico. Concedendo loro il seppuku, lo Shōgun riconosce la purezza dell’intento. È il bushidō nella sua forma più radicale: la reputazione vale più della sopravvivenza, l’azione giusta richiede il prezzo della responsabilità. Per questo la morte dei 47 non è una punizione “contro” i protagonisti, ma l’ultimo gesto coerente con i valori che li definiscono.

La morte di Kai e il valore simbolico dell’amore

Shû Nakajima, Hiroyuki Sanada e Takato Yonemoto in 47 Ronin
Shû Nakajima, Hiroyuki Sanada e Takato Yonemoto in 47 Ronin. Foto di Frank Connor – © 2013 – Universal PIctures

Kai è un “liminale”: non del tutto samurai, non del tutto demone; non pienamente accolto nella società degli uomini, ma neppure appartenente al mondo soprannaturale. La sua scelta di morire accanto ai compagni è identitaria prima che romantica: rifiuta l’eccezione che lo separerebbe dagli altri e chiede di essere riconosciuto come uno di loro. L’amore per Mika diventa allora sacramento narrativo: non si realizza nel matrimonio, ma nel consenso a un destino condiviso, che salva l’onore della casata e restituisce dignità al suo popolo. In termini di mito, Kai “riporta il fuoco” alla comunità e poi scompare, come gli eroi che appartengono più alla leggenda che alla cronaca.

Un finale tragico, ma profondamente giapponese

Pur aggiungendo streghe e Tengu, il film resta fedele al senso memoriale della vicenda: i 47 vengono sepolti insieme e venerati come campioni di lealtà. È il motivo per cui la storia dei ronin, nel Giappone reale, è diventata sinonimo di virtù civica: non celebra la vittoria militare (che nel film dura un istante), ma la coerenza morale di chi accetta le conseguenze delle proprie azioni. La versione hollywoodiana amplifica l’epica e la dimensione romantica, ma non svuota il messaggio: l’onore è un atto pubblico e la morte rituale è la forma narrativa con cui quel valore viene consegnato alla memoria collettiva.

In questo senso, il finale di 47 Ronin non è la sconfitta degli eroi, bensì la loro trasfigurazione: l’individuo scompare, resta l’esempio. È qui che mito storico e fantasy si stringono la mano.

Redazione
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