Giuseppe Tornatore e la magia del cinema

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Il cinema è molte cose: è la magia del suo farsi, è la possibilità per chi guarda di sognare una realtà diversa dalla propria, è la speranza per chi crea di poterla realizzare e racchiudere in un’unità perfetta e coerente. Può essere un rifugio, un modo di fuggire la vita, o piuttosto uno strumento, un veicolo di memoria e consapevolezza. È un mestiere da artigiani, certosino, quello di stupire e commuovere con le immagini, di saper trasmettere emozioni attraverso una forma rigorosa, far convivere istinto e stile, e far sì che tutto funzioni, come in una danza, o in una partitura musicale.

 

Tra i registi italiani d’oggi, quello che forse più di tutti ha voluto e saputo raccontare il fascino del cinema e il potere delle immagini, facendone al contempo strumento d’indagine della realtà e dell’individuo, è Giuseppe Tornatore. I suoi sono racconti di grande respiro, anche magniloquenti, grandi affreschi di spazi circoscritti – i paesini della sua terra d’origine, la Sicilia, protagonista di tante pellicole, amata, ma al tempo stesso esposta nelle sue contraddizioni e amaramente criticata; oppure contesti chiusi come il commissariato di polizia di Una pura formalità, o la nave Virginian de La leggenda del pianista sull’oceano -ma dal valore universale. Per questo le sue opere sono apprezzate anche all’estero e Tornatore può vantare tra i premi vinti la famigerata statuetta dell’Academy di Hollywood, ottenuta col suo secondo film Nuovo Cinema Paradiso. Inoltre, ad aumentare l’appeal del suo lavoro a livello internazionale, c’è sicuramente lo sguardo aperto del regista verso quel mondo e quel cinema, che ben volentieri ha coniugato più volte col nostro, scegliendo di dirigere attori di fama internazionale come Ben Gazzara, Philippe Noiret, Gérard Depardieu, Tim Roth e ora, nel suo ultimo film in uscita il 1 gennaio 2013, La migliore offerta, Geoffrey Rush, Donald Sutherland e Jim Sturgess. Una carriera partita dal teatro, proseguita come documentarista e per il grande schermo, dove in quasi trent’anni con una produzione piuttosto contenuta – una decina di lungometraggi  – ha imposto il suo nome nel panorama italiano e internazionale, senza tuttavia essere risparmiato da critiche e attacchi, come è accaduto con Baarìa, non molto apprezzato dalla critica, quasi per nulla premiato, al centro di polemiche per gli alti costi di produzione, solo in parte ripagati dagli incassi.

 
 

Giuseppe Tornatore nasce a Bagheria il 27 maggio del 1956. Come il personaggio di Totò in Nuovo cinema paradiso, la cui storia contiene diversi elementi autobiografici, Tornatore inizia presto (a dieci anni) a lavorare nell’ambito del cinema, facendo il proiezionista. Dunque non certo dalla parte delle “star”, bensì come artigiano del mestiere. Ma è l’immagine in tutte le sue forme ad interessare il futuro regista, così comincia anche ad approfondire la fotografia. Ed è proprio grazie ai servizi fotografici che mette da parte i primi risparmi. Questi gli consentono di acquistare la prima attrezzatura da documentarista. Il suo documentario d’esordio, Le minoranze etniche in Sicilia, è premiato e fa da trampolino di lancio verso una collaborazione con la Rai. Seguono infatti diversi lavori per l’emittente nazionale: il documentario Diario di Guttuso e due regie televisive: Ritratto di un rapinatore: incontro con Francesco Rosi, Scrittori siciliani e il cinema: Verga, Pirandello, Brancati e Sciascia.

L’esordio per il grande schermo risale al 1986, quando Tornatore dirige Il camorrista, in cui racconta il mondo della camorra attraverso un suo personaggio di spicco dell’epoca. La figura del protagonista, il Professore di Vesuviano, magistralmente interpretato da Ben Gazzara, si ispira infatti a Raffaele Cutolo – il film è tratto da un romanzo di Giuseppe Marrazzo ispirato proprio a Cutolo. Per questo lavoro il regista siciliano è subito premiato col Nastro d’Argento come miglior esordiente. Della pellicola Tornatore è anche sceneggiatore, come accadrà per diversi lavori successivi (qui assieme a Massimo De Rita). Inizia anche la sua collaborazione col fotografo Blasco Giurato, mentre le musiche sono di Nicola Piovani. Nonostante sia solo all’esordio, Tornatore mostra di saper ben padroneggiare il mezzo, realizzando un film avvincente, ricco di pathos drammatico, ma al tempo stesso senza fronzoli, coadiuvato dalle ottime interpretazioni del cast. Per quel che riguarda la materia, poi, non si limita certo a parlare di camorra come di un fenomeno locale e circoscritto, ma ne dà una visione più ampia che non manca di coinvolgere livelli politici e istituzionali nazionali e internazionali.

Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso

Due anni dopo è di nuovo dietro la macchina da presa per dirigere quello che a oggi è considerato il suo capolavoro: Nuovo Cinema Paradiso, di cui è anche sceneggiatore. Torna a lavorare con Blasco Giurato e chiama attorno a sé un ricco cast: Philippe Noiret, Pupella Maggio, Isa Danieli, Leopoldo Trieste, Antonella Attili, Enzo Cannavale e Agnese Nano, oltre a confermare la collaborazione con Leo Gullotta e Nicola Di Pinto. Ma oltre a Noiret, che interpreta Alfredo, il proiezionista del Cinema Paradiso nella Sicilia post bellica, il protagonista del film è Salvatore (da bambino, Salvatore Cascio, da adolescente, Marco Leonardi, da adulto, Jaques Perrin): la piccola peste che ama il cinematografo e vuole rubare al burbero Alfredo i segreti del mestiere, Salvatore che più tardi lascerà l’isola per Roma, dove diverrà un affermato regista. Il film è la storia di una grande amicizia, ma è innanzitutto un atto d’amore incondizionato per il cinema visto dalla parte della gente comune – quella che affollava le sale nel dopoguerra, quella come Alfredo che rendeva possibile tutto ciò stando dietro al proiettore – il cinema come mestiere artigianale dalla insostituibile funzione sociale, ma anche come mezzo per recuperare memoria di sé e della propria storia. Poi c’è il tema del coraggio e dell’emancipazione rispetto a una  realtà chiusa – quella dell’isola siciliana – che si ama ma che può diventare ostacolo alla realizzazione  delle proprie aspirazioni e talenti.

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Una realtà da cui è necessario essere lontani per comprenderla, ma a cui tornare per comprendere fino in fondo sé stessi. Un rapporto complesso quello di Tornatore con l’isola natale che, ha affermato, “è stata a lungo il mio tema ricorrente”. Nel personaggio di Salvatore troviamo poi una caratteristica che sarà tipica anche di altri personaggi creati dal regista, un duplice aspetto: da un lato possiedono un’indubbia capacità, un talento, una grandezza in un certo campo – Salvatore, ad esempio, è un affermato regista – dall’altro, rivelano grandi debolezze, sono impauriti e fragili nell’affrontare il passato, l’essenza più profonda di sé a lungo rimossa, oppure il mondo esterno con le sue insidie, le difficili relazioni umane, l’ignoto, la morte. Il film,  prodotto da Franco Cristaldi, ha una strana fortuna: la sua prima versione, di 167 minuti, viene scarsamente presa in considerazione dal pubblico e passa sotto silenzio.

La seconda invece, accorciata a 118 minuti, rinunciando al racconto dell’incontro tra Salvatore e il suo amore di gioventù ormai adulti, ha un enorme successo sia nel nostro paese che all’estero, dove Tornatore riceve i riconoscimenti più prestigiosi, che lo lanciano nel firmamento delle star internazionali come erede della grande tradizione cinematografica italiana: innanzitutto l’Oscar, il Golden Globe e il BAFTA come miglior film straniero – quest’ultimo premio va anche a Philippe Noiret e Salvatore Cascio come migliori attori, protagonista e non, allo stesso Tornatore in veste di sceneggiatore e ad Ennio Morricone per le splendide musiche.  Ma i premi non arrivano solo dal mondo anglosassone. Tornatore si aggiudica anche lo European Film Award, e il Festival di Cannes gli assegna il Premio Speciale della Giuria. È un successo internazionale enorme, cui si aggiunge il David di Donatello ottenuto in patria per la colonna sonora di Ennio Morricone.

Nel ’90 il regista di Bagheria ha l’occasione di dirigere Marcello Mastroianni, che in Stanno tutti bene offre una delle sue ultime intense interpretazioni nei panni di un anziano che gira l’Italia alla ricerca dei suoi figli. La pellicola riceverà il Nastro d’Argento per la sceneggiatura – opera dello stesso regista assieme a Tonino Guerra e Massimo De Rita – e il premio della Giuria Ecumenica al Festival di Cannes. Nel 2009 l’americano Kirk Jones ne ha tratto un remake, affidando a Robert De Niro la parte che fu di Mastroianni.

L’anno dopo, Tornatore vuole ancora Philippe Noiret come protagonista de Il cane blu, episodio da lui diretto facente parte del film La domenica specialmente.

Una Pura Formalita Giuseppe TornatoreNel ’94, cambia genere e stile con Una pura formalità. Sceglie infatti le atmosfere cupe di un noir claustrofobico, che ruota attorno alla sfida ad alta tensione fra i due protagonisti: Gérard Depardieu e Roman Polanski. Entrambi offrono delle ottime interpretazioni: il primo è il noto scrittore Onoff, che si trova a vagare in un bosco nel mezzo della notte. Raggiunto dai gendarmi, è condotto in commissariato per accertamenti come presunto autore di un omicidio (a stendere il verbale dell’interrogatorio che segue è un giovane Sergio Rubini). Il secondo è il commissario che cerca di farlo confessare, sebbene Onoff dichiari di non ricordare nulla. La chiave del film è appunto il ricordo – Ricordare è anche il titolo del brano cantato dallo stesso Depardieu sui titoli di coda, con testo scritto da Tornatore e musica di Andrea ed Ennio Morricone – che porterà a svelare il mistero e a dare al film nella sua seconda parte una svolta e un significato del tutto diversi da quelli inizialmente intesi.

Sfruttando la dicotomia tra sogno (incubo) e realtà, la pellicola si trasformerà infatti da giallo classico in riflessione sul tema della morte, dell’angoscia dell’uomo di fronte a quest’evento, dell’inconsapevolezza con cui lo affronta. Qui Tornatore è lontano dai grandi affreschi storico sociali dell’Italia, preferisce il sano distacco di un’oscura ambientazione europea e uno stile registico più scarno, funzionale all’ambiente chiuso e ristretto in cui si svolge gran parte dell’azione. Certo meno vistosi dei grandi “kolossal” diretti dal regista, questo tipo di film, che pure occupano una parte non trascurabile della sua produzione, hanno una serie di pregi: offrono uno sguardo inedito, sono aperti alla sperimentazione e meno sentimentali – in essi manca quel romanticismo nostalgico presente nelle pellicole legate all’Italia, e in particolare alla Sicilia. È proprio alla terra d’origine che il regista di Bagheria sceglie di tornare artisticamente col suo successivo lavoro – oltre che col documentario Lo schermo a tre punte –  a dimostrare come i due aspetti convivano nella sua carriera.

uomo_stelle-tornatoreNel ’95 infatti, sceglie ancora il binomio Sicilia-cinema per L’uomo delle stelle, in cui dirige Sergio Castellitto. Siamo negli anni ’50 e il Joe Morelli interpretato dall’attore romano è un cialtrone, un truffatore che sbarca in Sicilia per vendere agli abitanti di un piccolo paesino il sogno del cinema, della fama e del successo attraverso finti provini. Un film sul cinema come sogno, ma con un lato amaro e un disincanto assai più marcati rispetto a Nuovo cinema Paradiso, perché qui il cinema è assieme momento di verità su sé stessi (durante i provini gli aspiranti attori mettono a nudo la loro parte più autentica), ma anche una grande truffa, un raggiro e la miriade di caratteristiche facce sicule che Morelli scova appartiene a una massa di italiani creduloni, pronti a farsi raggirare davanti al miraggio della fama, del successo.

Morelli stesso, appunto, è a sua volta un disgraziato, ma anche un vigliacco truffatore. È esterno a quell’ambiente, che vive e legge da romano, con la tipica concretezza, il disincanto, il sarcasmo e una buona dose di cinismo. Ne esce la fotografia di un’Italia non certo edificante, in cui l’aspetto romantico, lo sguardo indulgente del regista si stemperano, pur essendo presenti. Attraverso quei volti segnati, quegli individui disposti a tutto pur di coltivare una speranza, il regista ci racconta comunque un sud che ama profondamente, con le sue ferite: arretrato, in perenne difficoltà, costretto a vivere di sogni, di miti, abbandonato a sé stesso. La pellicola riceve una buona accoglienza da parte di pubblico e critica e diversi riconoscimenti: David e Nastro d’Argento a Tornatore come miglior regista, Nastro d’Argento anche a Sergio Castellitto come miglior attore e a Leopoldo Trieste come non protagonista, oltre che alla fotografia di Dante Spinotti e alla scenografia di Francesco Bronzi; mentre a Venezia il film ottiene il Premio Speciale della Giuria.

La leggenda del pianista sull’oceanoIl 1998 è l’anno della trasposizione del monologo teatrale di Alessandro Baricco, Novecento, che diventa nelle mani di Tornatore La leggenda del pianista sull’oceano. Potenti uomini e mezzi lo affiancano in quest’impresa di respiro internazionale, che vede protagonista nei panni del pianista Danny Boodman T. D. Lemon, detto Novecento – abbandonato su una nave e lì cresciuto, diventato un portentoso pianista e mai sceso – un Tim Roth in grande spolvero. Se già il monologo di Baricco era toccante, intimo, ricco di piani lettura e sfumature, capace di veicolare emozioni universali, tale ricchezza viene resa perfettamente dal film, che aggiunge l’elegante magniloquenza delle immagini, degli scenari e della musica, quest’ultima opera ancora una volta del Maestro Morricone, al suo meglio. Il film è ricco di momenti e scene che restano impressi nella memoria dello spettatore, poiché è questo il cinema che piace al nostro regista, quello che lascia lo spettatore stupito, a bocca aperta di fronte alle immagini. Si disegna qui in maniera egregia la figura di un uomo vissuto da sempre in un universo limitato, quello del transatlantico Virginian, e abituato a valicare i suoi confini solo con la fantasia e attraverso la magia delle note, della musica che ha imparato a suonare alla perfezione sui tasti del pianoforte. Dunque, come già in altri film di Tornatore, c’è l’idea di uno spazio chiuso, di un universo circoscritto e della difficoltà ad uscirne, a trovare il coraggio di affrontare il mondo esterno. Questa difficoltà è spinta qui alle estreme conseguenze. E come in altre opere del regista, a questa debolezza e fragilità del protagonista fa da contraltare una straordinaria capacità, un talento in un dato ambito. Sembra una fiaba, o appunto, una leggenda, ma c’è nel personaggio di Novecento un’umanità in cui tutti si possono riconoscere. Tornatore ottiene per questo lavoro il Ciack d’Oro,  il David di Donatello e il Nastro d’Argento per la miglior regia. Con quest’ultimo è premiato anche per la sceneggiatura. Mentre Ennio Morricone riceve il Golden Globe per la colonna sonora.

malena-tornatoreDopo questo successo internazionale, il regista torna all’Italia, e alla “sua” Sicilia con Malèna, che segue la vicenda esistenziale di un’affascinante e disinibita donna (Monica Bellucci) in un paesino della provincia siciliana in tempo di guerra, vittima di una mentalità bigotta e ipocrita, considerata puro oggetto di desiderio dagli uomini e d’invidia e rancore dalle donne. L’unico che sembra nutrire per lei un sentimento autentico è l’adolescente Renato (Giuseppe Sulfaro). Malèna dovrà sopportare una serie di traversie, conoscere umiliazioni e violenze, ma faticosamente e a caro prezzo sarà poi accettata. Ancora un premio alle musiche di Morricone, il Nastro d’Argento, e uno alla fotografia di Lajos Koltai, il David.

A questo punto della carriera, Tornatore si concede una sosta per poi riprendere nel 2006 con quel filone noir, thriller intrapreso anni addietro con Una pura formalità. Riprende però anche, in un cero senso, il tema di Malèna. La sconosciuta infatti, ci porta nel territorio oscuro della suspense, ma la sua protagonista, Irena/Ksenia Rappoport, vive una condizione per alcuni versi non dissimile da quella di Malèna. È cambiata l’epoca, qui siamo all’attualità, e Irena è una donna ucraina venuta in Italia per lavorare, che invece finisce a fare la prostituta per conto di un inquietante protettore di nome Muffa. Una donna che diventa oggetto, viene usata dagli uomini.

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Qui ci si spinge ancora oltre rispetto a Malèna, perché Irena è per di più schiava dell’abbietto Muffa e viene usata non solo come prostituta, ma anche come fattrice di bambini da vendere alle facoltose famiglie del nord Italia che non possono avere figli. Tutto questo però si scopre solo gradualmente durante il film perché svelato poco alla volta da sapienti flashback. All’inizio infatti, Irena è “la sconosciuta” che fa di tutto per guadagnarsi un posto a servizio in casa Adacher. Scopriremo poi il suo doloroso passato e quali conti con esso lei voglia chiudere. Qui il regista, ancora coadiuvato dal Maestro Morricone, sostenuto da un ottimo cast che vede accanto alla talentuosa Rappoport, volti noti del cinema nostrano come Alessandro Haber, Piera Degli Esposti, Michele Placido, Margherita Buy, Claudia Gerini e Pierfrancesco Favino, dà una convincente ulteriore prova della sua grande abilità registica riuscendo a orchestrare un noir che tiene alta la tensione e vivo l’interesse dello spettatore per tutta la sua durata, con un mistero che si svela pian piano e che unisce abilmente una storia di rivincita, un tentativo di riappropriarsi della propria vita e dignità, con la denuncia di una tragedia sociale che si consuma nelle società occidentali. Il film otterrà quattro David, fra cui quello come miglior pellicola e miglior direzione, tre Nastri d’Argento e uno European Film Award.

Tre anni dopo Tornatore si dà alla realizzazione di quello che lui stesso ha definito “il film della mia vita”, ovvero Baarìa, in cui racconta uno spaccato di vita della sua città natale, Bagheria (Baarìa), a partire dagli anni ‘30 e nel suo dipanarsi attraverso tre generazioni. Il film può dirsi davvero corale: se infatti i protagonisti sono Peppino Torrenuova/Francesco Scianna e Mannina Scalia/Margareth Madè con le rispettive famiglie, una miriade di interpreti – quasi tutti siciliani, il che ha permesso di farne una versione in siciliano stretto e una doppiata  dagli stessi attori e destinata alla fruizione fuori dall’isola – si muovono attorno a loro a comporre un affresco poetico ed epico di grande raffinatezza estetica, come solo Tornatore sa fare.

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Il regista è anche autore del soggetto e della sceneggiatura. Le musiche sono come sempre affidate a Ennio Morricone, mentre la fotografia è di Enrico Lucidi. Il film porta con sé grandi aspettative, sia da parte del suo autore, che si è mosso sul terreno a lui più caro con un grande impegno registico, sia da parte del pubblico, che ormai conosce la maestria di Tornatore e si aspetta sempre da lui cinema ai massimi livelli. L’impegno non viene però suffragato dai riconoscimenti sperati: nonostante le molte candidature, il film porta a casa solo il David alla miglior colonna sonora, il David Giovani e il Nastro dell’anno. Altrettanta delusione per quanto riguarda i premi internazionali: è candidato all’Oscar ma non arriva alla cinquina finale, e neppure la nomination al Golden Globe va a buon fine. Per quel che riguarda l’accoglienza da parte del pubblico, il film incassa, sì, più di 10 milioni di euro, a fronte però di un impegno produttivo di 25 milioni da parte di Medusa. Addosso al regista piovono così molte critiche, cui si aggiungono quelle degli animalisti per la sequenza dell’uccisione di un bovino, girata in un mattatoio tunisino. Un’esperienza con luci e ombre, dunque, questa di Baarìa, di cui però Tornatore resta nel complesso soddisfatto e orgoglioso.

Giuseppe TornatoreDal 1 gennaio 2013, invece, nelle sale italiane ci sarà l’ultima fatica del regista siciliano, di nuovo un tuffo nel giallo, come lui stesso lo ha definito: “con una tessitura narrativa un po’ misteriosa, da giallo classico, un po’ thriller, anche se nel film non ci sono morti, assassini, assassinati o investigatori”. Il film si avvale ancora una volta di un cast internazionale: Geoffrey Rush, Donald Sutherland, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, ed ha in comune con La sconosciuta l’ambientazione in una città mitteleuropea. L’azione si svolge nel mondo delle aste: il protagonista è infatti Virgil Oldman/Geoffrey Rush, un battitore d’asta che si trova alle prese con una particolare cliente (Sylvia Hoeks). Molteplici saranno le chiavi della storia, che è anche e soprattutto una storia d’amore, come dichiarato dallo stesso Tornatore. La produzione stavolta è affidata a Paco Cinematografica e Warner Bros.

Mentre, per chi è già oltre e si sta chiedendo quali siano i programmi futuri di uno dei registi più apprezzati del nostro cinema, pare stia cercando di concretizzare un suo vecchio progetto: un kolossal sull’assedio nazista di San Pietroburgo che dovrebbe intitolarsi Leningrado. Al lavoro sull’aspetto produttivo di un progetto da cento milioni di dollari dovrebbe esserci l’americano Avi Lerner. Per il momento però, non c’è nulla di certo.

Scilla Santoro
Scilla Santoro
Giornalista pubblicista e insegnate, collabora con Cinefilos.it dal 2010. E' appassionata di cinema, soprattutto italiano ed europeo. Ha scritto anche di cronaca, ambiente, sport, musica. Tra le sue altre passioni c'è proprio la musica (rock e pop), assieme alla pittura e all'arte in genere.
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